Recensioni - Opera

Le ossessioni del novecento nel Giocatore di Prokof’ev a Martina Franca

Jan Latham-Koenig concerta efficacemente la rara opera modernista del compositore russo

Spettacolo di punta del 48° Festival della Valle d’Itria, arriva a Martina Franca un bell’allestimento de “Le Joueur”, opera composta da Segej Prokof’ev nel 1917 per il Teatro Mariinskij di San Pietroburgo (di lì a poco diverrà Leningrado), ma mai andata in scena in Russia a causa della rivoluzione di Ottobre. L’opera ebbe il suo battesimo effettivo solo nel 1929, in una versione in francese ampiamente rivista dal compositore, al Théatre Royale de la Monnaie di Bruxelles, per poi scomparire subito dai cartelloni europei.

Tratta dallo stesso Prokof’ev dall’omonimo romanzo breve di Dostoevskij, la vicenda si svolge in una fantomatica cittadina tedesca “Roulettenburg”, dove si incontrano figure dedite in maniera compulsiva al gioco d’azzardo, in specifico alla Roulette, che spesso ritorna anche come idea musicale ossessiva e vorticosa nella partitura.

Troviamo una serie di personaggi simbolo e specchio delle ossessioni e delle insicurezze di un periodo turbolento come i primi decenni del novecento, in cui, dopo aver sdoganato la psicoanalisi freudiana, l’uomo si tuffa nelle proprie perversioni forse anche per sfuggire ad una realtà che è ormai incomprensibile e distopica.

Il generale senza nome che attende la morte della nonna per giocarsi l’eredità, pagare i suoi debiti e fuggire con l’interessata amante; un innamorato completatemene ossessionato dal gioco, tanto da dimenticare la propria innamorata e una serie di nobili più o meno viziosi dediti ad una vita di svago in note località di villeggiatura. Rispetto al romanzo di Dostoevskij la storia diventa più labile, quasi inconsistente. Il vero protagonista sembra essere l’ossessione per il denaro e per la roulette.

Il colpo di scena si ha poi con l’arrivo della vecchia nonna, che non ha nessuna intenzione di morire, ma che è venuta anch’essa a Roulettenburg per tentare la fortuna. Finirà con il perdere tutto, gettando tutti nella disperazione proprio perché è il denaro l’unica cosa che conta.

In chiusura non vi è riconciliazione, né amore, ma una grande scena d’insieme, lunga e complessa, che si svolge al tavolo da gioco, dove il protagonista riesce a sbancare la roulette per poi letteralmente impazzire in un delirio di denaro e onnipotenza.

Il regista David Poutney ambienta la vicenda in un non luogo, con un’infilata di porte in prospettiva, un divano centrale a forma di roulette e un grande specchio incombente sulla scena che rimanda e distorce le immagini. Sulle pareti i numeri distorti della roulette. La scena diventa la proiezione delle menti ossessionate dei protagonisti.

Bella la scenografia ideata da Leila Fteita, così come i suoi costumi, sghembi e bicolori, che ricordano vagamente i balletti di inizio novecento di Djagilev e alcuni bozzetti di Fortunato Depero, con alti cappelli e maschere moderniste.

Accurata la messa in scena e la preparazione dei personaggi, sempre allucinati e sopra le righe, anche se non si può non notare come nei primi tre atti la drammaturgia risulti a tratti ripetitiva e l’eccesso dialogico sfalda per così dire l’azione in scene che a tratti risultano sterili e che forse bisognava costruire in modo più simbolico e ardito.

Ben organizzata la complessa scena d’insieme del quarto atto, in cui viene efficacemente utilizzato il grande specchio incombente, di svobodiana memoria, per mostrare di riflesso quello che accade sui tavoli da gioco.

Jan Latham-Koenig dirige in maniera esemplare la complessa partitura, instaurando un ottimo amalgama fra buca e palcoscenico e dando il meglio di sé nelle parti sinfoniche che svettano di suoni turgidi e aspri.

Buono nel complesso tutto il cast su cui si innalza per vocalità e interpretazione il marchese del tenore inglese Paul Curievici, che sfoggia una voce timbrata e sonora con un’interpretazione attoriale magnetica e convincente. Ottimo anche Sergej Radchenko nella complessa e lunga parte di Alexis, a cui riesce a dare sempre i giusti accenti in un’interpretazione a tratti forse troppo sorvegliata. Maritina Tampakopoulos, grazie ad una voce sonora e ben impostata, disegna una Pauline di grande forza vocale e interpretativa. Il generale era Andrew Greenan, che ben si destreggia nella lunga parte pur con qualche impaccio scenico di troppo. Ksenia Chubunova disegna una Blanche volitiva e convincente. Un plauso infine a Silvia Beltrami, che incanta nella parte della Grand-Mère, forte di una voce timbrata e ficcante, omogenea in tutti i registri, e di un’interpretazione decisa e convincente.

Grande lavoro d’insieme per tutto il resto del numeroso cast, sempre professionale e attento: Alexander Ilvakhin, Sandro Rossi, Strahinja Djokic, Gonzalo Godoy Sepulveda, Dagur Thorgrimsson, Joan Folqué, Toni Nezic, Irina Bogdanova, Alessia Panza, Larissa Grigoreva, Elcin Adil Huseynov, Alessandro Lanzi, Yuri Guerra, Vincenzo Mandarino, Pantaleo Metta, Elia Colombotto, Diego, Maffezzoni, Graziano De Pace, Dario Lattanzio.

Applausi convinti nel finale.

Raffaello Malesci (24 Luglio 2022)