Verona, Teatro Filarmonico:”La Gioconda”

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2022
“LA GIOCONDA”
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Tobia Gorrio (Arrigo Boito)
Musica di 
Amilcare Ponchielli
La Gioconda MONICA CONESA
Laura Adorno AGNIESZKA REHLIS
Alvise Badoero SIMON LIM
La Cieca AGOSTINA SMIMMERO
Enzo Grimaldo ANGELO VILLARI
Barnaba ANGELO VECCIA
Zuàne
ALESSANDRO ABIS
Un cantore FRANCESCO AZZOLINI
Isèpo FRANCESCO PITTARI
Un pilota MAURIZIO PANTÒ
Un barnabotto NICOLÒ RIGANO
Una voce
DARIO RIGHETTI
Un’altra voce JACOPO BIANCHINI
Prime ballerine EVGENIJA KOSKINA, TETIANA SVETLICNA, MINA RADAKOVIC
Orchestra e  Coro della Fondazione Arena di Verona, Coro di Voci Bianche A.LI.VE. diretto da Paolo Facincani

Direttore Francesco Ommassini
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia e Scene Filippo Tonon
Costumi Filippo Tonon e Carla Galleri
Luci Fiammetta Baldiserri
Coreografie Valerio Longo
Nuovo allestimento della Fondazione Arena di Verona in coproduzione con Slovene National Theatre Maribor, Teatri di OperaLombardia e Teatro Massimo Bellini di Catania
Verona, 23 ottobre 2022
Un debutto assoluto, quello del capolavoro di Ponchielli, per la prima volta al Filarmonico. Non certo per Verona dove il festival estivo all’Arena può contare su dieci edizioni tra le quali si ricordano quella storica del 1947 che rivelò la stella di Maria Callas; nel 1980  l’anfiteatro scaligero potè riunire i nomi di spicco di Ghena Dimitrova (debuttante in Arena) e Lucinao Pavarotti. Opera spettacolare, dalla drammaturgia sontuosa, ricca di coreografia, effetti e colpi di scena sul modello del grand opéra francese, segna l’insolita collaborazione tra il colto, sofisticato ed innovatore Boito con il modesto e provinciale Ponchielli; da una parte lo strenuo ricercatore di un rinnovato stile letterario e musicale che ripudiava “l’apogeo del cabalettismo” per aspirare alla modernità strizzando l’occhio ai maestri francesi (Saint-Saëns, Massenet, Faurè e Franck), dall’altra il musicista semplice e schietto ancorato alla tradizione. I due lavorarono sul dramma Angelo, tyran de Padoue (1835) di Victor Hugo sotto l’egida dell’editore Giulio Ricordi che faceva da intermediario tra il pavido, dubbioso e tormentato musicista e l’esigente letterato che, forse per tutelarsi, firmò il libretto con lo pseudonimo di Tobia Gorrio. Le perplessità di Ponchielli erano generate dal suo lungo confinamento nella provincia cremonese a dirigere bande, che lo tennero di fatto lontano dalle novità della mondana Milano; schiacciato inoltre dalla personalità di un Verdi rinnovatosi con Aida (al cui modello Ponchielli si ispira), dall’influenza francese e dal teatro di Wagner che stava prendendo piede in Italia. La paura di Ponchielli era quella di dover modificare il suo pensiero musicale per adattarlo all’innovativo libretto di Boito che effettivamente mise un’impronta originale al suo lavoro ripensando il dramma di Hugo in chiave moderna, alla luce della Scapigliatura. Il successo ottenuto fu merito di entrambi, grazie ad azzeccati colpi di scena teatrali e ben resi dalla musica; anche il personaggio di Barnaba, motore della vicenda, nella sua originalità anticipa i futuri Jago (Otello) e Scarpia (Tosca). Proprio la musica di Ponchielli, che abbandonò le sue preoccupazioni stimolato dall’audacia letteraria di Boito, costituisce il punto di partenza dell’idea registica di Filippo Tonon il quale riallacciandosi agli albori del nascente Verismo posticipa la vicenda nella Venezia del 1876 (anno in cui l’opera vide la prima), decadente, rappresentativa di un potere malato popolato di spie e delazioni e dominato da un’aristocrazia opprimente; sue erano anche le scene, essenziali ma indirizzate ad una diversificazionie di atmosfere. Un perenne fondale nero che dava una generica aura lugubre all’intera vicenda. Il secondo atto, che evoca continuamente, luna, mare…cielo (neanche nella celebre romanza di Enzo) rimane incuneato in questa nera cupezza. La scena del terzo atto, alla Ca’ d’Oro, appariva tristemente spenta e quanto mai disadorna. Tonon è un regista abile e dotato di intelligenza teatrale ma per Gioconda sarebbe stato preferibile un allestimento tradizionale; l’esito è quindi tutto sommato gradevole ma decisamente anonimo e privo di mordente drammaturgico a cui non hanno contribuito granché i costumi firmati con Carla Galleri e le luci di Fiammetta Baldiserri. Anche le coreografie di Valerio Longo non sembravano prendere vita da un’idea chiara, soprattutto nella celebre Danza delle Ore animata da tre ballerine che muovevano su passi incomprensibili, musicalmente stranianti e drammaturgicamente inconcludenti. Venendo all’aspetto musicale, il ruolo della protagonista era affidato alla giovane ma inesperta Monica Conesa, dal timbro acidulo, tendenzialmente stridulo e tagliente nel registro acuto quanto inconsistente e flebile in quello grave, cosa che per un’opera come questa costituisce un limite quasi imperdonabile; l’età le consiglierebbe senz’altro di essere prudente e non affrontare a viso aperto ruoli di simile portata. Al contrario Agostina Smimmero, quale Cieca, gonfia eccessivamente i suoni buttandoli in petto, azione non necessaria in quanto il materiale vocale c’è e non occorre spingere rischiando di rendere poco chiara la linea di canto, abbruttire l’emissione e rendendo il fraseggio inelegante. Un po’ anonima la Laura Adorno di  Agnieszka Rehlis, di non eccelse doti ma che ha complessivamente trovato una quadratura drammaturgica del suo personaggio, sospeso tra i doveri del suo essere moglie e la malcelata infelicità espressa in “Stella del marinar”. Dimensione che difettava invece nel basso sudcoreano Simon Lim, dotato di un’ottima voce ma il cui ruolo di Badoero era però scenicamente statico, ingessato,  privo della personalità e dell’autorevolezza che richiede un capo dell’Inquisizione di Stato. Le note migliori venivano decisamente dal tenore Angelo Villari che ha delineato i tratti del nobile Grimaldo con bella quanto generosa linea vocale (ottima la sua Cielo e mar) e dal malvagio Barnaba di Angelo Veccia, capace di dipingere in maniera encomiabile l’odioso ed antipatico delatore al servizio della Serenissima. Una bella voce, stentorea, autorevole e sorretta da spiccata capacità attoriale. Nelle parti minori, precisi e puntualmente efficaci erano Alessandro Abis ( Zuàne), Francesco Pittari (Isèpo) e i cinque artisti del coro della Fondazione Arena: Francesco Azzolini (Un cantore), Maurizio Pantò (Un pilota), Nicolò Rigano (Un barnabotto), Dario Righetti (Una voce) e Jacopo Bianchini (Un’altra voce). Le tre prime ballerine, di cui abbiamo riferito poco sopra erano Evgenija Koskina, Tetiana Svetlicna e Mina Radakovic. A tenere le redini della partitura era chiamato Francesco Ommassini, presenza abbastanza frequente al Filarmonico e al quale spesso la Fondazione affida la concertazione di titoli operistici; nonostante il suo gesto sia funzionale, risulta poco chiaro e a volte si ha l’impressione che orchestra e coro operino in autonomia. Nel complesso ha tenuto bene gli insiemi e se l’è cavata dignitosamente anche se la concertazione di un’opera è ben altra cosa. Bene le masse artistiche della Fondazione, con l’orchestra talvolta ridondante ed il coro numericamente esiguo a fronte di un’opera che richiede una certa generosità di suono collettivo. Molto bene i piccoli cantori del coro A.LI.VE. diretto da Paolo Facincani. Pubblico numeroso ma non da tutto esaurito, composto in gran parte da persone anziane, segno che la strada per portare i giovani a teatro è ancora lunga. Repliche mercoledì 26, venerdì 28 e domenica 30 ottobre.(Foto Ennevi per Fondazione Arena)