Bologna: Lohengrin, o il Cavaliere disaccoppiato

Ultimo allestimento nella storica sala del Bibiena prima di un trasloco quadriennale (salvo complicazioni) nei terrains vagues a nord del centro storico, dove al padiglione n. 20 del grigio quartiere fieristico si sta apprestando un “Temporary TCBO”. Tramontata la precedente ipotesi di un palatenda, che avrebbe fatto tanto traversata del deserto, si confida che la quarantena finanziata con 11 milioni di euro servirà non solo a modernizzare le dotazioni tecniche del Comunale, ma anche a riqualificarne i dintorni, da tempo ostaggio di una mala movida alcolico-tossico-graffitara quant’altre mai molesta e vociferante.

Per la festa di arrivederci tornava in scena dopo 20 anni esatti di assenza il Lohengrin, in un allestimento tutto nuovo firmato dal regista italo-belga Luigi De Angelis e dalla cooperativa Fanny & Alexander. Il titolo, inizialmente previsto nel 2021 per celebrare i 150 anni dal debutto di un’opera wagneriana nel nostro Paese e poi slittato causa pandemia, fa parte di un pacchetto delle cinque opere del Tedesco, nostro concittadino onorario, che qui conobbero la loro prima nazionale. Avviata nel 2020 con Tristan und Isolde, la pentalogia bolognese proseguirà con Der fliegende Holländer per l’inaugurazione della stagione 2023; e che San Petronio ci metta una buona parola per consentire al sovrintendente Fulvio Macciardi, in carica dal 2017, di condurre in porto l’impresa nelle non facili condizioni che si prospettano. Con l’ultimo bilancio in attivo di quasi mezzo milione — ma il personale in stato di agitazione per il blocco del premio di risultato e un nuovo inquilino sulla poltrona del MiBAC — il trasloco non sembra destinato a facilitargli le cose.

Venendo alla polpa musicale dello spettacolo, il direttore Asher Fisch imprimeva ai complessi di casa un passo narrativo spedito, senza perciò rinunciare alle finezze di impasti timbrici né ai clangori di fanfare decentrate in palco di proscenio, e meno che mai alla puntuale sottolineatura dei Leitmotive. Ottima la coordinazione fra buca e palcoscenico per un risultato finale caldamente rimunerato dal pubblico; luci ed ombre nella compagnia di canto. Daniel Kirch — che non è proprio uno Heldentenor, e va bene così — si disimpegna bene nel declamato, ma è povero di sfumature intimiste e compromette per lievi incertezze d’intonazione due momenti topici come il commiato al cigno e la saga di Montsalvat. Prestazione più che dignitosa quella di Anna-Louise Cole (Elsa), un giovane soprano lirico-sfogato le cui effusioni amorose, sognanti e tormentate trovano un limite nella presenza scenica poco convincente. Il baritono islandese Ólafur Sigurdarson appariva in serata no: un certo affanno in tessitura alta, eccessi di enfasi e sporcature nella dizione ne facevano un Telramund inferiore alla sua fama.

Tra mezze voci di serpentina seduzione e taglienti esplosioni di perfidia, Anna Maria Chiuri saliva in cattedra nel second’atto come una Ortrud da manuale. Davvero regale per colore rotondo, declamazione scolpita e carismatica presenza il navigato wagneriano Albert Dohmen (Enrico l’Uccellatore), ben servito dal suo araldo Lukas Zeman. Quando costui lanciava alla platea il doppio cartello di sfida “Wer hier im Gotteskampf zu streiten kam…”, veniva quasi voglia — a seconda dei gusti — di alzare la mano o di scomparire sotto la poltrona. Momento coinvolgente in una lettura scenica che ne offriva in copia moderata.

L’ormai obbligatorio disaccoppiamento fra il visuale e il musicale — cui per pigrizia si continua ad affibbiare l’etichetta pigliatutto di Regietheater — ha qui trovato una declinazione cauta, forse debitrice ai rigori minimalisti di un Adolphe Appia o di un Wieland Wagner. Uno spazio scenico nudo ravvivato da fondali proiettati e da simboli archetipali quali il glifo del labirinto di Cnosso o lo spadone itifallico sospeso a mezz’aria; più pochi elementi di costruito “duro”: un ripido scalettone nero, un lettone parallelepipedo. E fin qui tutto benino all’insegna del mito dimagrato. Ma poi sopravvengono tentazioni storiciste e/o metateatrali: un doppio di Richard Wagner che, guidando per mano un bambinetto incoronato (dapprima Ludwig di Baviera e in ultimo Goffredo di Brabante), vuol render conto del suo laborioso processo creativo e magari del suo investimento su un disegno politico pangermanista. Ancora: un’aula di giustizia che negli atti primo e terzo si affolla di uniformi e toghe nere, evocando una via di mezzo tra un briefing interforze della Nato e una sessione del tribunale di Norimberga presieduta da un ermellino della nostra Cassazione. Attualizzazione alla Peter Sellars e successori; in materia si è visto ben di peggio.

Una drammaturgia eclettica sempre in bilico tra il fiabesco e il didascalico: le motivazioni si spiegano nelle pregevoli note di regia; ma si sa che lo spettatore medio o non acquista il programma di sala (e fa male perché a soli 5 euro ne varrebbe la pena), oppure lo sfoglia di corsa negl’intervalli riservandosi di leggerlo con comodo a casa. Donde i fischi e i “buh” all’indirizzo del team registico che fin dalla prima punteggeranno tutte le sei serate all’atto della passerella finale. Ingenerosi? In parte sì; annoti però nei suoi registri il premiato collettivo Fanny & Alexander: la tagliola dell’umorismo involontario scatta implacabile quando una Vispa Teresa in forte sovrappeso sgambetta in camiciola bianca per intere scene dietro a un fidanzato più incline alle pose da John Travolta che non allo ieratico contegno di un Cavaliere del Graal. Pessima cosa è certo il body shaming; però non si può esigere troppo dal pubblico sotto la clausola contrattuale nota in greco come ἐποχή e in inglese come suspension of disbelief. Formule iniziatiche che nonno Aristide, loggionista di pochissime letture, soleva condensare nell’adagio “Anche l’occhio vuole la sua parte”.

 

Carlo Vitali

(19 novembre 2022)

La locandina

Direttore Asher Fisch
Regia, scene, luci e proiezioni video Luigi De Angelis
Drammaturgia e costumi Chiara Lagani
Personaggi e interpreti:
Enrico l’Uccellatore  Albert Dohmen
Lohengrin Daniel Kirch
Elsa di Brabante Anna-Louise Cole
Telramund Ólafur Sigurdarson
Ortrud Anna Maria Chiuri
Araldo Lukas Zeman
Primo cavaliere Manuel Pierattelli
Secondo cavaliere Pietro Picone
Terzo cavaliere Simon Schnorr
Quarto cavaliere Viktor Shevčenko
Primo paggio  Francesca Micarelli
Secondo paggio Maria Cristina Bellantuono
Terzo paggio Eleonora Filipponi
Quarto paggio Alena Sautier
Richard Wagner Andrea Argentieri (ruolo muto)
Orchestra e coro del Teatro Comunale di Bologna 
con elementi dell’Opera Nazionale di Kiev
Maestri del coro Gea Garatti Ansini e Bogdan Pliš

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