Recensioni - Opera

Verona: La Bohème sessantottina chiude felicemente il 2022 al Filarmonico

Nella replica straordinaria del capolavoro pucciniano spicca la Musetta di Darya Rybak

Non il solito abbaino ammuffito da storiella strappalacrime dal sapore natalizio ma piuttosto una stamperia semiclandestina, popolata di giovani, impregnata di fumo, sogni, rabbia. A mezz’aria, appesi a corde tese da un lato all’altro della parete, dipinti e immagini d’arte, a nascondere volantini, slogan e immagini destinati a surriscaldare l’aria (gelida per il freddo mordente) e soprattutto le piazze della città. Informazione libera, nessun bavaglio, niente padroni. I colori e il linguaggio di ragazzi intenzionati a prendersi il mondo. Un mondo riscritto sull’impulso di un moto popolare nato attraverso i libri, dallo studio dei padri e proprio contro i padri rivolto. Pochi soldi in tasca, un affastellato universo di progetti in testa. In nome di questo patto, sentirsi fratelli è un attimo, indissolubilmente legati ad un’idea di domani nata in un oggi squattrinato eppure solidale, complice, straordinariamente avventuroso. Insieme si può tutto: rinunciare a qualcosa di caro, saltare la cena, inventarsi una beffa per dribblare la sorte, godere del precario presente in un’ebbrezza sfacciata e purissima, possibile solo a vent’anni.

Nella Bohème andata in scena in versione straordinaria lo scorso 31 dicembre al Teatro Filarmonico di Verona, di fronte ad un pubblico internazionale punteggiato soprattutto da turisti, la regia di Stefano Trespidi – perfettamente servita dalle scene di Juan Guillermo Nova, dai costumi di Silvia Bonetti e dalle luci di Paolo Mazzon - sottraeva il capolavoro pucciniano alle atmosfere rétro della solita tradizione patinata e lo immergeva nel turbine delle rivolte del 1968. Finestroni da cui Parigi era uno sterminato susseguirsi di tetti anonimi, con i monumenti lontani chissà dove, ma soprattutto di piazze in sommossa con giovani in protesta, polizia schierata, cartelli sindacali, caricature, bandiere. Uno scontro generazionale e culturale a colpi di manganello così come, poco più in là, a botte di aperitivi, da Momus, con la buona società seduta al caffè, scandalizzata da giovani irrispettosi e scostumati. Su tutti, Musetta – una Darya Rybak elegante e ben tratteggiata, seppur non perfetta nella dizione - , una Marianne postmoderna in grado di infiammare la folla col suo canto libero e spregiudicato, inneggiante ad una femminilità sottratta dal giogo del dominio maschile, protagonista e non subordinata della propria vita. È Puccini, erano quei dreamers visionari con minigonne, jeans a zampa e capelli lunghi. Siamo sempre noi. Attorno a lei, cantrice di un mondo caotico e ribollente, contraddittorio e poetico, si stringeva il cenacolo di studenti e intellettuali capitanati dall’ardimentoso Marcello, un Alessandro Luongo esuberante e perfettamente sfaccettato nello scolpire il suo personaggio, tra vampate di virile passionalità e magnifici ripiegamenti di inaspettata dolcezza. Con lui, spiccava, in sostituzione dell’indisposto Roberto Alagna, il tenore americano Jonathan Tetelman, al suo debutto a Verona. Grazie ad una vocalità naturalissima e luminosa in ogni sezione, con acuti svettanti (ancorché eccessivi per volume di suono) e pianissimi di toccante intimismo, il suo Rodolfo veniva scolpito con scalpello fine e pienamente convincente, anche se la scintilla della passione nei confronti di Mimì sembrava tardare ad accendersi.

Forse per le poche prove a disposizione, forse per una scarsa focalizzazione di Irina Lungu nel personaggio della povera fioraia – troppo sicuri gli accenti, troppo smaliziato il suo introdursi nella mansarda dello scrittore – l’attesa scena del lume, peraltro ben tratteggiata sul piano vocale, vedeva i due personaggi non del tutto credibili nel dare pieno seguito alle parole cantate. Solo nel corso degli atti, con la sofferenza e il tormento a fare da ingrediente, l’intreccio delle loro vite è sembrato trovare la giusta tinta ed un più stringente amalgama. Prezioso anche il Colline di Francesco Leone, da subito calato nei panni del saggio del gruppo, puntuale e sempre impeccabile negli interventi, fino al compianto (forse pronunciato con eccessivo pudore) sulla Vecchia zimarra, pronta ad essere venduta per pagare le cure alla morente Mimì. A completare il cast, il bravo Shaunard di Jan Antem e i pregevoli Benoit di Nicolò Donini e Alcindoro di Roberto Accurso. Un cast traboccante di talenti anche scenicamente azzeccati: dinamici, spontanei, capaci di stanare dalla partitura le mille corde di un’ironia sbeffeggiante così come di un’autoironia altrettanto pungente, senza scolorire con ciò la venatura di acceso dramma che attraversa la storia.

Il terzo atto raccontava i risvolti amari della loro gioventù divorata da una battaglia destinata a naufragare contro un avversario immensamente più grande. E la Barriera d’Enfer era una banlieue con relitti di macchine, palazzoni affogati nella nebbia (o nel fumo delle fabbriche), il profilo dell’ingresso dell’Università occupata. “Interdit d’interdire”; come Delacroix, come David prima di lui, qui era Marcello ad ispirare la rivolta, a fare fuoco sulle braci, mentre il suo cuore finiva mangiato dalla crudele, adorabile civetteria di Musetta, in un’altalena senza fine di tremendi furori ed immediate riconciliazioni. Qui, a schiantarsi era anche il sogno di Mimì e Rodolfo, schiacciato – come la rivoluzione, come l’alito breve della giovinezza – dalla disillusione. Una deriva che l’ultimo quadro risolveva non senza una punta di provocazione, con gli ex studenti sessantottini ora collocati in ben altri confort, in un appartamento della buona (?) borghesia parigina: carta da parati, arredamenti eleganti, la tour Eiffel che finalmente si annunciava, a qualche isolato da lì, quei quadri prima utilizzati come provocatoria copertura ora esposti alle pareti, come trofei di un raggiunto status. E una escort in vasca da bagno, ad allietare le ore a Marcello e a Rodolfo, prima di essere bruscamente allontanata al montare dei ricordi dei rispettivi amori. È qui che Mimì, intercettata da Musetta per strada, approdava per venire a morire. Di freddo, un freddo di certo lontano dagli agi di un raggiunto benessere.

Un freddo che veniva da dentro, dai ricordi, dal proprio destino a cui nessuno sfugge. In buca, la vigorosa direzione di Andrea Battistoni imprimeva alla vicenda il giusto pathos e la sferzava con l’incalzare di una lettura che sul racconto, sul serrato susseguirsi non solo di scene ma soprattutto delle situazioni emotive, trovava il suo centro. Bene quindi i piani sonori mai di contorno alle voci ma, piuttosto, di piena centralità, rutilanti, a masse compatte, quasi a coprire e a sommergere le esistenze dei personaggi. Un grane affresco corale, sociale, dunque, a cui un braccio più morbido ed una maggiore duttilità nel tendere l’arco narrativo avrebbero dato il perfetto assetto e la piena efficacia espressiva, talvolta inficiata da un’eccessiva segmentazione. Applausi per tutti gli interpreti, per orchestra e coro della Fondazione Arena nonché per lo strepitoso (anche nella disinvoltura scenica) coro di Voci Bianche A.LI.VE preparato da Paolo Facincani.