Verona, Teatro Filarmonico: “Aida”

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2023
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di 
Giuseppe Verdi
Aida MONICA CONESA
Radamès SERGIO ESCOBAR
Amneris KETEVAN KEMOKLIDZE
Amonasro YOUNGJUN PARK
Ramfis ANTONIO DI MATTEO
Il Re ROMANO DAL ZOVO
Messaggero RICCARDO RADOS
Sacerdotessa FRANCESCA MAIONCHI
Prima ballerina ELEANA ANDREOUDI
Orchestra e  Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore 
Massimiliano Stefanelli
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia e scene Franco Zeffirelli 
Costumi
Anna Anni
 Luci Paolo Mazzon
Coreografia Luc Bouy
Allestimento realizzato da Franco Zeffirelli per il Teatro di Busseto in occasione del primo centenario della morte di Giuseppe Verdi (2001)
Verona, 17 febbraio 2023

Nei giorni in cui Franco Zeffirelli avrebbe compiuto 100 anni la Fondazione Arena mette in scena la sua Aida minimalista pensata per il piccolissimo Teatro Verdi di Busseto nel 2001, durante le celebrazioni per il primo centenario della morte del grande compositore. Una bella sfida per Verona, che vede declinare gli allestimenti faraonici propri del suo anfiteatro romano in una visione ridotta ma non per questo meno singolare e suggestiva del capolavoro verdiano. Come confidò lo stesso Zeffirelli, quando propose proprio Aida per un teatrino dalla capienza di duecentocinquanta posti e con un proscenio di appena sette metri, si vide attorniato da sguardi increduli e perplessi; come era possibile adattare uno spettacolo dai grandi numeri a spazi così angusti? In realtà il regista fiorentino era fermamente convinto che dietro l’aspetto kolossal dell’opera, Verdi volesse invece raccontare una storia intima, che rivelasse i tormenti interiori e la desolante solitudine dei singoli personaggi. Ecco dunque lanciare a sé stesso, raccogliendola prontamente, una bella sfida: lui, che ci aveva sempre abituati ad allestimenti sontuosi e spettacolari, ora tentava una riduzione drastica del “gran macchinone”. La sua idea partiva proprio dalla musica di Verdi, da quel preludio annunciato dal timbro diafano degli archi, quasi a voler dire che Aida non è composta solo di fanfare, doppi cori e balletto ma è anche pervasa da momenti di toccante fragilità umana. Per questo cercò anche un cast vocale composto di giovani da plasmare e con i quali poter costruire questa nuova concezione dell’opera: giovani, belli e disperati d’amore. Uno spettacolo che ha fatto il giro dei teatri italiani e che ora approda al Filarmonico, ancora una volta avvalendosi di una compagnia di canto giovane ma già affermata in ambito internazionale. Come già detto questa Aidina (termine coniato dallo stesso regista) gioca molto sull’aspetto intimo e scava nelle pieghe più profonde dell’animo umano; ne è piena testimonianza la scena della Marcia trionfale che non si vede ma si intuisce, con il popolo festante messo di spalle e con la schiava etiope, nella sua disperazione, in primo piano. Nonostante questa visione ridimensionata risultano inspiegabili alcuni tagli alla partitura come le poche battute nel duetto del primo atto (Forse … l’arcano amore), la coda fugata dei sacerdoti nella scena del Trionfo (Della vittoria agli arbitri supremi), il coro Vieni, o guerriero vindice e tutti i ballabili del secondo atto. Va detto però che le scene, pure a firma di Zeffirelli e i costumi di Anna Anni (ripresi da Lorena Marin) conservano intatti il fascino dell’allestimento originali come pure efficaci risultano le luci di Paolo Mazzon, soprattutto nel terzo atto. Poco comprensibile, invece, la coreografia nella scena della consacrazione, ideata da Luc Bouy e danzata da Eleana Andreoudi, dal significato oscuro. Nessun bagliore dalla compagnia di canto, a cominciare dalla protagonista che aveva la voce di Monica Conesa; in evidente difficoltà di intonazione, emotivamente discontinua e dal fastidioso vibrato già udito nella precedente produzione de La Gioconda, la sua linea di canto ha compromesso i momenti più intensi, soprattutto nelle suggestioni del terzo atto. La sua antagonista Ketevan Kemoklidze, nei panni di Amneris è poco credibile, anche per le difficoltà nei passaggi di registro, e bisogna attendere la scena del Giudizio per poterne valutare la tenuta drammatica; in sostanza si evince (anche se non del tutto) solo la disperazione finale ma non il caleidoscopio emotivo dei rimanenti atti. Decisamente imbarazzante il Radamès di Sergio Escobar, chiamato in extremis a ricoprire il ruolo, già in evidente affanno con l’aria di apertura, oscillante tra il rude e il disarmonico: il si bemolle gli si è strozzato in gola tra il disappunto del pubblico che al termine non ha nemmeno applaudito. Disomogeneità tra i registri e un timbro ingolato lo hanno accompagnato per buona parte dello spettacolo anche se si è parzialmente riscattato nel quarto atto, dove peraltro riesce pure a sbagliare saltando Ecco la tomba mia e creando un piccolo sbandamento in orchestra. Ottimo e in ruolo invece Youngjun Park il quale, sebbene non sempre ineccepibile scenicamente, ha dipinto un Amonasro barbaro e cinico nel richiamare la figlia ai doveri verso la Patria. Antonio Di Matteo possiede un gran bel materiale vocale ma il suo Ramfis non è vocalmente a fuoco e anche la dizione ne risente, così come il Re di Romano Dal Zovo, ascoltato più volte anche in Arena, non è esente da pecche anche se la sua prova è stata tutto sommato positiva. A chiudere il cast vi erano il Messaggero di Riccardo Rados e la Sacerdotessa di Francesca Maionchi, interpretati con onorevole impegno. Dal podio Massimiliano Stefanelli (lo stesso direttore a Busseto nel 2001) ha forse cercato di allinearsi al pensiero zeffirelliano rincorrendo sonorità cameristiche in una partitura dal forte sinfonismo ma il gioco gli è riuscito a metà; non c’era differenza tra i piani e i forti e non si è capito fino a che punto prevalesse l’intenzione intimistica su quella faraonica. L’orchestra della Fondazione Arena, pur avvezza ad una partitura che ormai conosce a menadito, non è risultata particolarmente ispirata fornendo una prestazione sottotono e frequenti imprecisioni nell’assieme. Il coro, circa una cinquantina di elementi istruiti da Ulisse Trabacchin, ancora una volta si è cimentato in un’eroica lotta ingaggiata con l’orchestra per la supremazia sonora; ciò che forse era in origine finalizzato alla ricerca di mezze voci ha finito per prendere sonorità areniane. Resta un po’ di amaro in bocca per quello che doveva celebrare la memoria di uno dei registi più prolifici della Fondazione Arena e che invece si è rivelato uno spettacolo riuscito solo a metà: primo perché ormai è un allestimento datato, secondo perché nessun regista (per quanto grande e geniale) dovrebbe permettersi di tagliare i numeri musicali ed infine per la prestazione vocale dei protagonisti che sembravano cantare con una voce non loro. Il tutto salutato da un pubblico numeroso ma assai poco entusiasta; forse l’Aida formato tascabile non si addice a Verona. Replica domenica 19 febbraio. Foto Ennevi per Fondazione Arena