L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Odi il voto, sol di rose

di Francesco Lora

Al Teatro La Fenice, Ernani di Verdi è da manuale nella lettura musicale di Riccardo Frizza, Anastasia Bartoli, Michele Pertusi, Ernesto Petti e Piero Pretti, lettura che si fa servire da quella teatrale di Andrea Bernard.

VENEZIA, 25 marzo 2023 – Lo stesso Riccardo Frizza che aveva diretto una Traviata meccanica, stagliuzzata e indolente, lo scorso dicembre per il Teatro Comunale di Bologna mestamente sfollato nel quartiere fieristico, lo stesso Frizza – si diceva – viene ora dal concertare, al Teatro La Fenice di Venezia, per cinque recite dal 16 al 28 marzo, uno tra i meglio ferrati Ernani degli ultimi parecchi anni. Esecuzione integrale, anzitutto, con tutte le ripetizioni al loro posto – è la logica della forma musicale a esigerlo; ma vallo tu a spiegare a chi, sempre sotto le due torri, ha appena maciullato Norma – e con variazioni di delizioso capriccio inserite persino nella cabaletta del protagonista, là ove la sacrosanta prassi di ornamentare è per nulla semplice nel dettato di Verdi (spiegazione: c’è quasi sempre almeno una parte strumentale che “raddoppia” quella vocale, ostacolandone la libertà d’infiorettare ciò che è letteralmente scritto in partitura). Anche gli altri pregi direttoriali rispondono in blocco all’appello: il rispetto delle necessità dei cantanti, senza tuttavia permettere loro che si adagino nella pigrizia; il sollecitare colori a volontà dal forte senso d’appartenenza di orchestra e coro veneziani, ottimi; il dare entusiasmante risalto alla banda, che rimbomba da dietro la scena con inedita gagliardia. Manca solo l’esaudimento di un mai esaudito – e forse ancora soggettivo – desiderio di chi scrive: eccolo espresso di séguito.

I numeri di metronomo assegnati da tradizione ed editoria alle opere del Verdi giovane, tuttora in voga, hanno perlopiù la loro origine in un Ottocento tardo, epoca ove l’autore stesso doveva aver maturato una differente percezione del giusto stacco di tempi nei suoi lavori degli anni Quaranta-Cinquanta. Soprattutto Ernani, col suo ritmo drammatico precipitoso, le sue soluzioni musicali stringate, la sua certa qual ben cosciente ironia sparsa dal librettista Piave e dal compositore in libretto e partitura, come non a caso già Romani e Donizetti avevano fatto nella Lucrezia Borgia anch’essa tratta da Hugo, soprattutto Ernani – insomma – sembra invocare una parossistica stretta del passo melodico, la quale guardi più alla travolgente Vienna danzante di Johann Strauss senior che non all’aristocratica Napoli cantabile di Mercadante e Bellini. È un’ipotesi un tantinello eretica che potrebbe, un domani, divenire una tesi condivisibile o dimostrata: nel 1844, quando Ernani ebbe il battesimo proprio alla Fenice, Verdi, non ancora co-padre della patria assieme a Vittorio Emanuele II, era più austriaco che italiano, per cittadinanza e famiglia culturale. A quarant’anni Riccardo Muti lo aveva istintivamente còlto e attuato, ma non ebbe ardire di ripeterlo riapprocciando Ernani alla volta dei settanta; aprendosi ora sul podio l’edizione critica a cura di Claudio Gallico, una rinnovata riflessione sulla prassi esecutiva sarebbe la benvenuta.

La lettura musicale di Frizza sovrasta quella teatrale con regìa di Andrea Bernard, scene di Alberto Beltrame, costumi di Elena Beccaro e luci di Marco Alba. Già pochi giorni dopo la recita ne resta un ricordo non negativo ma sbiadito: collocazione spazio-temporale didascalicamente rispettata in ciò che si vede fra gesto, costumi e scene, con un tocco d’astrazione quando, nei luoghi psicologici di stasi, le architetture gotiche si alzano dal suolo; insistenza sull’antefatto del dramma, e cioè sul regio assassinio del padre di Ernani e sulla conseguente condanna di lui a precipitare dall’alta nobiltà ispanica al banditismo di qualità; spaesamento, allora, quando in scena si esce dalle prescrizioni originali: perché, nell’ultima stretta del Finale I, tutti gli altri personaggi, per nulla accomunabili nel ruolo rispetto al protagonista, si chiudono minacciosamente in cerchio su di lui oppresso e in ginocchio? E perché, a voler recuperare un appiglio lasciato poco sopra, e adottandosi l’edizione critica completa di appendici, ed essendovi pure un direttore conscio e studioso, il regista insiste sul rapporto padre assassinato / figlio vendicatore, lasciandosi nel contempo sfuggire – lo ha già notato Alberto Mattioli, nella «Stampa» del 19 marzo – l’aria alternativa al Finale II, «Odi il voto, o grande Iddio», coevamente composta per il tenore Nicola Ivanoff dietro l’obbligante invito di Rossini, aria che nel testo indugia proprio sul tema privilegiato da Bernard?

Quanto il ricorso all’aria alternativa accresca la portata del protagonista nell’opera, lo ha dimostrato Gregory Kunde nel circuito lirico emiliano due inverni or sono. Spalle forti avrebbe avuto, e ha, anche il Piero Pretti scritturato a Venezia; qui più rifinito, anzi, rispetto a quando comparve come Ernani nel 2020 a Parma: interprete senza pretesa di apparire originale, è tuttavia quello azzeccato per timbro naturale, accento fiero, estensione facile, modulazione varia. Del soprano, Anastasia Bartoli, si parla da anni tra melomani, ma solo dalla stagione in corso la sua presenza italiana è divenuta massiccia e rilevante; ilQQ resoconto è di mezzi generosi, con emissione un po’ fissa, colore di bella personalità, solido registro di petto e il vezzo di aggiustare repentinamente l’intonazione dopo un attacco dal basso: un’Elvira di carattere, cui val la pena di fare le pulci giacché la primadonna è patentata. Michele Pertusi è il re dei bassi italiani, e come Silva lo ostenta a maggior ragione: nulla si perde nel tralasciare la cabaletta seriore che malamente ingombra il Finale I. Don Carlo, infine, ha la possanza vocale e la prestanza fisica di Ernesto Petti; recensendo la “prima”, Mattioli ha notato che canta «mai più piano del mezzoforte»: alla penultima recita, il baritono si vendica sussurrando la ripresa di «Vieni meco, sol di rose» – con la sua tessitura acutissima – tanto a fior di labbro, da costringere a virtuosismi dinamici bacchetta e orchestra.


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