Recensioni - Opera

Sublime, sontuosa e complessa l’Aida di Stefano Poda

Per l’Aida del centenario l’artista trentino crea un nuovo paradigma di messa in scena per gli spazi dell’Arena. Grande conferma per la coppia Netrebko-Eyvazov

Aida innovativa e rutilante per la centesima stagione estiva all’anfiteatro lirico di Verona. La nuova produzione del titolo è stata affidata all’artista trentino Stefano Poda, che, come suo solito, cura tutti gli aspetti dello spettacolo: regia, scena, costumi, luci e coreografie in una sorta di opera d’arte totale.

Stefano Poda inventa una Aida futurista e simbolica, moderna e antica allo stesso tempo, senza dimenticare le esigenze spettacolari richieste dal grande spazio areniano. Non c’è nulla di mimetico nell’Aida di Poda, i personaggi esprimono un agire simbolico, interiore; il tutto è materializzazione astratta di sentimenti, di forze contrapposte, di lotta fra istanze diverse e infine di riconciliazione.

L’azione si svolge su una grande pedana trasparente da cui esce un’immensa mano dalle dita meccaniche, atte a stringere o a lasciare, a stritolare e opprimere oppure ad aprirsi e a liberare. Il tutto altro non è che una grande metafora. L’uomo è la mano, la sua capacità di agire, di influire sul mondo, di modificarlo, ma anche la sua capacità, unica, di opprimere il suo simile, di ingabbiarlo e di costringerlo.

Aida parla di questo, di desideri contrapposti, di aspirazioni amorose contrastanti, di lotta politica e militare. Così nell’allestimento di Poda il simbolo della mano è onnipresente, pervasivo: mani aperte bianche e nere su lunghi bastoni, mani chiuse a pugno durante la scena della preparazione alla guerra e del trionfo, la grande mano metallica sullo sfondo.

Poda non ha timore a muovere le masse nel grande spazio areniano, sublime e originale la preparazione dei mimi e dei figuranti, che diventano vero motore dello spettacolo, simbologia viva e umana dei pensieri dei protagonisti. Tutto si muove per spinte contrapposte, con il coro che passa da destra a sinistra, spingendo via fisicamente la scena precedente, oppure nel passaggio dall’ultimo quadro del primo atto al secondo, in cui la massa vestita di rosso della corte di Amneris letteralmente spinge violentemente fuori il coro precedente.

Poi l’umanità, la presenza fisica che diventa simbologia dei travagli interiori dei protagonisti, figurazione visiva dei tormenti che portano le istanze del dramma. Così è per la massa dei prigionieri che circonda Amonasro nella scena del trionfo. Una massa di uomini rinchiusa nei sotterranei da cui esce con fatica e con grande effetto scenico; una massa abbattuta e usata dal potere, che solo nel momento della liberazione riesce a rialzarsi in un anelito di speranza, ma che poi viene inesorabilmente gettata a terra dal passaggio di un Aida innamorata, inseguita nel finale dell’atto da Radames: è il loro amore, la loro istanza, che, pur incolpevole, ricade nuovamente sui vinti. La guerra metaforica e reale ricomincia, i corpi creano una barriera fisica che non permette riconciliazione.

Che dire poi della scena del trionfo, rutilante di luci e di effetti perché giustamente l’Arena non è un teatro come gli altri e lo spettacolo qui ha le sue esigenze. Tuttavia anche in questo caso la spettacolarità non è fine a sé stessa, l’utilizzo dei mimi al risuonare della marcia trionfale è originale e simbolico, nulla viene concesso alla classica sfilata, eppure la scena è piena di luce ed è un piacere per gli occhi, uno sfavillio che di nuovo è istanza di potere, di propaganda e di oppressione. Solo a tratti si ha, nella scena del trionfo, un certo effetto di eccesso dovuto all’imponente presenza di masse corali e figuranti, comunque sempre ottimamente gestiti.

Ma è nel ripiegarsi sull’umanità dei protagonisti, nelle scene intime o di preghiera che Poda esprime il suo meglio. Una scena del Nilo plastica di luci trasportate da bianche silfidi che creano il movimento costante delle acque del fiume, insieme alle mille luci a led disseminate sulle gradinate dell’Arena che creano effetti strabilianti; oppure nel quadro dell’invocazione del tempio, in cui un grande pallone aerostatico argenteo sale in aria verticalmente da dietro alla grande mano e, grazie a dei proiettori direzionati su questa sfera rutilante, crea una piramide luminosa di rara bellezza.

Piramide luminosa che ritorna nel finale, etereo, scarno, freddo, con il coro tutto disposto a semicerchio in abiti bianchi, quasi che il mondo diventasse l’officiante di un amore impossibile, o meglio ancora di una speranza che ritorna, di un altro destino, di un’altra possibilità. Di nuovo la sfera si alza nel cielo, riflette la luce infinita dell’amore, cangiante nel vento della sera veronese a creare sempre nuove e inaspettate sfaccettature luminose. La tragedia diventa luce, gli innamorati si trovano in una piramide che sembra un’astronave, pronta a portarli in un altrove di speranza. Grande, magnifica lettura di una delle pagine più belle di Verdi.

Un’Aida da vedere quella di Stefano Poda.

Non da meno il cast vocale proposto dall’Arena con la coppia Anna Netrebko e Yusif Eyvazov, che si riconfermano ai vertici dell’attuale firmamento lirico.

Tutto è stato detto della magistrale Aida di Anna Netrebko, che si riconferma saldissima e raffinata interprete anche in una serata dall’afa asfissiante. Magistrali le mezze voci, incredibilmente sonore nella grande cavea areniana; decisi, sicuri e timbrati gli acuti, espressivi i passaggi di fiato, incredibilmente sicuro l’uso del registro di petto. Spigliato, coinvolto e consapevole il personaggio, che si adatta con intelligenza e duttilità al concetto scenico di Poda. Grande affiatamento con Yusif Eyvazov nel finale.

Quest’ultimo si conferma interprete intelligente e in costante crescita espressiva. La voce è sempre salda, proiettata, gestita in modo intelligente e sorvegliato. Convincente e sonoro il suo “Celeste Aida”. Il tenore azero regala il suo meglio nelle parti liriche e nel duetto finale.

Olesya Petrova delinea Amneris con piglio da leonessa e con voce ampia e timbrata assolvendo ottimamente il suo compito, al netto di qualche eccesso verista e di un passaggio fra registro grave e acuto non sempre immacolato. Amonasro era il veterano Alberto Gazale, che, dall’alto della grande esperienza, delinea un personaggio convincente con qualche indulgenza al facile effetto, largamente perdonabile nello spazio areniano. Simon Lim è stato un Re magistrale, dalla voce sonora e timbrata che correva omogenea e decisa nella cavea, una grande prova per lui. Meno a fuoco il Ramfis di Rafal Siwek, sostanzialmente monocorde e con un volume non adeguato. Da citare il Messaggero di gran lusso di Riccardo Rados.

Marco Armiliato dirige con sicurezza e professionalità, completando ottimamente una serata da incorniciare.

Grande successo per tutti gli interpreti nel finale e ovazioni per Anna Netrebko.

Raffaello Malesci (Domenica 16 Luglio 2023)