L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dimenticabile bohème

di Luca Fialdini

La nuova produzione della Bohème del Festival Puccini non convince né per allestimento né per esecuzione, nonostante gli sforzi positivi del cast

TORRE DEL LAGO (LU) – Il titolo di inaugurazione del cartellone 2023 del Festival Puccini, suo malgrado, ha fatto molto discutere per la decisione di traslare l’azione dal 1830 alla contestazione sessantottina e con una presenza importante di riferimenti diretti alla sinistra partitica – ma non solo – direttamente sul palco.

Il regista Christophe Gayral ha parlato di due collegamenti tra la data prevista da libretto e quella di ambientazione: il primo (banale) è quello di un’opera sulla giovinezza e la contestazione dei giovani cinquantacinque anni fa; il secondo, più interessante, mette in relazione il 1968 con i moti del 1830-1831 che portarono all’avvicendamento tra Carlo X e Luigi Filippo d’Orleans.

Da una prospettiva strettamente tecnica, la realizzazione del comparto visivo non è affatto male perché le scene di Christophe Ouvrard sono ben realizzate e i costumi di Tiziano Musetti si inseriscono bene in questo spazio, mentre le luci di Peter Van Praet aiutano ad armonizzare il tutto. Quel che si può rilevare al di là della mera realizzazione tecnica è una presenza eccessiva del kitsch: il termine può essere abbastanza rappresentativo per gli anni Sessanta, ma non sta scritto da nessuna parte che ogni cosa debba essere circondata da un alone di grossolanità, un eccesso che – oltre a stuccare abbastanza presto – in qualche caso porta persino alla caricatura, ad esempio Parpignol travestito da Babbo Natale e con una caterva di palloncini legati in vita. Anche nella componente registica sono presenti alcune scelte non elegantissime e, diciamocelo, fin troppo scontate (come Mimì che nel primo atto si spoglia senza alcun apparente motivo), oltre al fatto che Gayral opera continuamente delle piccole forzature sul libretto: dal lume/torcia elettrica che non si spegne a personaggi che dicono di fare una cosa mentre ne fanno un’altra (Marcello che dovrebbe dipingere il Mar Rosso in realtà è alle prese con un manifesto di propaganda, un Alcindoro in sedia a rotelle a cui viene detto «siedi» e «corri» o il finale del terzo quadro dove i protagonisti che per dieci minuti hanno parlato della propria separazione finiscono sotto le coperte), fino al quarto quadro che vede la Mimì più in salute di sempre morire quasi dal niente.

A questo si deve aggiungere la questione del messaggio politico che di per sé non aggiunge né toglie nulla all’intero spettacolo e può giusto imputato di creare uno spaesamento più che comprensibile quando, dopo la morte della sartina, entrano in scena cartelli con il pugno chiuso e riferimenti al riscaldamento globale. Se proprio si voleva fare una Bohème politica bisognava avere il coraggio di farla davvero e fino in fondo. Due cartelli tinti di rosso non rappresentano nulla e il presunto messaggio politico è così decontestualizzato che arriva come un fulmine a ciel sereno, quando poteva essere preparato e avere un senso.

Alla fine il problema principale di questo allestimento non è la trasposizione in epoca successiva a quella prevista, ma il fatto che il cambiamento non abbia un vero significato e che non aggiunga nulla dal punto di vista drammaturgico. In secondo luogo si può rilevare che La bohème in sé si presti davvero poco a letture in chiave politica: esistono altri titoli di Puccini dove la componente politica è presente e in modo fondamentale (uno su tutti Tosca) e che se si vuole possono essere riletti in questo senso, ma nella Bohème è veramente difficile rintracciare caratteristiche simili. La sensazione avuta nel guardare questa produzione e quella che Gayral abbia voluto adattare il titolo alla sua idea – non il contrario – anche se la prova dei fatti suggeriva un diverso approccio.

Non meglio la direzione di Manlio Benzi, subentrato dopo la prima: non solidissima e in qualche occasione un po’ approssimativa, con diversi scollamenti tra palco e buca. La scelta di tempi marcatamente lenti ha apertamente messo in difficoltà i solisti che, per lo meno nel primo atto, hanno sporadicamente tentato di prendere tempi più scorrevoli ma sono dovuti rientrare nei ranghi perché almeno in apparenza il podio non ha dimostrato di voler seguire questi cambi di rotta. Pochi colori e qualche imprecisione di troppo dall’Orchestra del Festival Puccini, che abbiamo senz’altro sentito in forma migliore, mentre il Coro e il Coro di voci bianche del Festival Puccini, preparati rispettivamente da Roberto Ardigò e Viviana Apicella, hanno un buon esito nel pur ristretto spazio a loro riservato.

È emerso chiaro l’impegno del cast che verosimilmente ha dato fondo alle proprie energie, ma anche in questo caso ci sono stati tempi migliori. In generale tutti hanno cantato troppo forte, cosa che ha causato un sostanziale appiattimento di colori e assenza di sfumature, rendendo molto difficile formulare un giudizio sull’esecuzione. Buoni i comprimari Francesco Auriemma (sergente dei Doganieri), Marco Montagna (Parpignol), Alessandro Ceccarini (Alcindoro) e in particolare Angelo Nardinocchi (Benoit).

Antonio Di Matteo è un Colline convincente e con uno strumento senz’altro apprezzabile e se Sergio Bologna (Schaunard) non ha una presenza vocale che attira l’attenzione bisogna riconoscerne lo spessore nella recitazione e nella caratterizzazione.

Alessandro Luongo è un più che valido Marcello. Anche se il suo timbro apprezzato in altre occasioni non ha il giusto risalto nell’arena di Torre del Lago, Luongo rende ottimamente nelle scene d’assieme sotto il profilo sia vocale sia interpretativo, confermando la propria solidità a dispetto delle circostanze avverse.

Molto bene anche la Musetta di Federica Guida che si avvale di una voce morbida e chiara, ben appoggiata anche nel registro acuto, unita a una recitazione mai sopra le righe ma che comunque convince e diverte allo stesso tempo.

Oreste Cosimo è un Rodolfo che, pur risentendo comprensibilmente dei tempi troppo lenti, riesce a imporsi in virtù del bel timbro tenorile limpido e del fraseggio curato. Pur registrando una buona performance nel complesso, Cosimo dà il meglio nei duetti con Mimì ai quali infonde un sentito patetismo senza però scadere nella lacrima.

Claudia Pavone nella parte di Mimì ha sostenuto una prova resa ancor più impegnativa dai tempi scelti dal podio, a cui ha saputo far fronte con buona resa. Vocalmente Pavone si impone con poco sforzo sin dal primo ingresso sulla scena e principalmente per l’ottima tecnica che le consente un controllo vocale confermato poi nel corso dell’opera. Il timbro è un po’ troppo scuro e dalla grana grossa nel registro grave, ma acquisisce luminosità e ricchezza d’armonici spostandosi verso l’acuto.

In definitiva, una Bohème da dimenticare, dove come già detto si percepisce un impegno che però non è in grado di riscattare delle decisioni che non superano la prova del palco.


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