L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Percorso sul buffo (ma da meditare)

di Francesco Lora

Al Festival della Valle d’Itria molto è cambiato in soli due anni. Il paese dei campanelli di Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato, con direzione di Fabio Luisi e regìa di Alessandro Talevi, e Il turco in Italia di Gioachino Rossini, con direzione di Michele Spotti e regìa di Silvia Paoli, nonché col primo piano vocale di Giuliana Gianfaldoni, Giulio Mastrototaro e Manuel Amati, e nella rara versione romana del 1815, esemplificano due apporti tra i quali uno è assai preferibile.

MARTINA FRANCA, 30 luglio e 1o agosto 2023 – Al Festival della Valle d’Itria, per come ogni melomane di razza ha imparato ad amarlo, crescendo, di edizione in edizione, catalizzato dall’edonismo urbanistico, commerciale e mangereccio di Martina Franca, molto è cambiato in soli due anni. Dal 2022 c’è un nuovo direttore artistico, Sebastian Schwarz, e nel febbraio scorso è morto, a 87 anni, Franco Punzi, signorile e storico presidente e dominus del Festival. È rimasto il direttore musicale, Fabio Luisi: ma un festival, a differenza di una fondazione lirica o di un’orchestra sinfonica, avrebbe bisogno non tanto di una figura di riferimento sul podio, quanto di poter cambiare pelle ogni volta che ciò sia necessario, a seconda del cartellone proposto. È cambiata, soprattutto, la Martina del festival: musicofili incalliti, manager dello spettacolo e critici musicali erano ormai abituati a darsi appuntamento lì, in massa; prima ancora che il programma fosse pubblicato, la regola era tenersi liberi gli ultimi dieci giorni di luglio e i primi cinque di agosto, perché, tanto, a Martina ci si va, cascasse il mondo: uno spettacolo dietro l’altro e anche quattro al giorno tra opere e concerti, le colazioni con interminabili chiacchiere transgenerazionali sotto il portico dell’albergo, il caffè “leccese” e il bocconotto presi al bar storico di via Garibaldi o via Paisiello, il prepararsi a scambiare cento saluti ogni quarto d’ora con amici vecchi e nuovi, i pranzi con burrate, pomodori e caciocavallo alla latteria in piazza Maria immacolata, le cene con arsenali di bombette alla braceria di via Mercadante o corso Messapia. Dopo le avvisaglie dell’edizione passata, socialmente, quest’anno è mutato più che qualcosa: nessuna fatica a trovare dove dormire, giusto un paio di sporadici saluti al giorno, pranzi e cene passati in inedita solitaria; mentre riconoscono l’affezionato che sta scrivendo, i negozianti chiedono a lui cosa sia successo, dove e perché sia sparita la clientela del passato. È successo che la missione storica del Festival, ossia restituire all’ascolto opere importanti e impegnative ma dimenticate, va sbiadendosi con un passo viepiù inesorabile; è successo che il cartellone si è ristretto nella quantità, ma che per assistere a tutte e cinque le opere bisognerebbe ora fermarsi almeno tredici giorni (tantini) e tollerare date vuote o colmate con appuntamenti esili; è successo che i nomi nelle locandine bastano adesso a significare un calo d’idiomaticità istituzionale e a recare qualche apprensione sulla solidità di metodo ed esito.

«Figurarsi se vado fino a Martina per Il paese dei campanelli», si è sentito ripetere a oltranza dopo la presentazione del programma. Il problema è che sull’operetta di Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato – ne ricorre attualmente il centenario – è stato anche fatto l’investimento per lo spettacolo di punta dell’anno, per tre recite, dal 26 al 30 luglio, nell’atrio del Palazzo Ducale. Non solo: intorno a questo titolo è stato appositamente costituito un percorso sul buffo, con originalità e pertinenza altalenanti, dall’Orazio di Pietro Auletta (1737) agli Uccellatori di Florian Leopold Gassmann (1759) e dal Turco in Italia di Gioachino Rossini (1814-15) all’Adorable Bel-Boul di Jules Massenet (1874). Per carità, tutto si può fare; ma esistono buone priorità e strade maestre, nel cosa e nel come: il Valle d’Itria ha ruolo storico non di festival generalista intento al grande repertorio e alle mere curiosità, ma di contesto privilegiato per la riscoperta di capolavori notevoli, e in particolare del belcanto italiano – tanto meglio se napoletano – tra la seconda metà del Seicento e la prima dell’Ottocento; quale che sia il titolo scelto, poi, bisogna che i vertici del Festival – la regola vale sempre, ma più a Martina che altrove – ci credano con tutta l’anima, mettendone bene a fuoco la natura, restituendone il testo chiaro e intero, e dotandosi d’interpreti capaci non solo di disimpegnarvisi, ma anche di riabilitare l’opera in questione. L’Orazio e Gli uccellatori, al contrario, sono finiti squassati dai casuali tagli registici – quelli di forbice e quello di pensiero – di una tale Jean Renshaw, con i quali è stato sabotato all’origine il lavoro musicale, rispettivamente, di uno specialista come Federico Maria Sardelli e di un deditissimo come Enrico Pagano. Tornando al Paese dei campanelli, un’ora abbondante di sfavillante e spensierata musica quasi secondo-futuristica deve vedersela con altrettanto tempo di dialoghi parlati alla maniera obbligata dell’operetta: gli attori Federico Vazzola, Stefano Bresciani, Fabio Rossini, Pasquale Buonarota e Graziano De Pace, come Pomerania, Attanasio, Tarquinio, Basilio e Tom, recitano soltanto e rimangono ottimamente nel loro, mentre i cantanti Francesca Sassu, Maritina Tampakopoulos, Silvia Regazzo, Norman Reinhardt e Matteo Macchioni, come Nela, Bombon, Ethel, Hans e La Gaffe, vengono dall’opera, ce la mettono tutta, hanno valore vocale ma faticano a dominare la scena come gli altri colleghi, dovendosi continuamente preoccupare della stancante oscillazione tecnica tra il cantato e il parlato.

Il direttore, Fabio Luisi, non ha in ciò l’indole del soccorritore: accende metallica, smagliante ed esplosiva l’orchestra del Teatro Petruzzelli, riscuote ossequiosa obbedienza dal relativo coro, azzecca una tinta – unica – per l’intera opera, anzi operetta, e soprassiede acché ogni “numero” riceva una piega peculiare in luogo della generica buona maniera. Passi, ma è proprio dopo un simile trattamento che si sarà meglio autorizzati a classificare l’operetta come genere minore. Chi invece calza come un guanto tale codice, con ironica dovizia di sfumature, e con la coreografia di Annamaria Bruzzese e le scene e i costumi di Anna Bonomelli, è il solito vulcanico regista Alessandro Talevi, il quale non fa l’errore di voler declinare a tutti i costi Il paese dei campanelli come dramma psicologico – la velleità della Renshaw in Auletta e Gassmann: missione fallita – e lo lascia invece al suo alveo di divertimento sciocchino, fresco, leggero, passionale, curando la recitazione e la qualità del colpo d’occhio: un affarone per il Teatro Coccia di Novara, che coproduce l’allestimento senza dover fare i conti con un profilo etico da festival con pretese musicologiche. E pensare che a Martina, se non fosse passato un musicologo vero a riferire nei giusti orecchi che esiste un’inedita revisione romana d’autore del 1815, avrebbero mandato in scena l’originale e corrente Turco in Italia milanese del 1814, quello nel quale ogni melomane s’imbatte almeno una volta ogni due anni, magari interpolato senza criterio – come spesso avviene – con “numeri” d’appendice. Nelle quattro recite del 18 luglio - 6 agosto, sempre nel Palazzo Ducale, si è invece riascoltato per la prima volta un coerente assetto alternativo: cadono la cavatina di Geronio, «Vado in caccia d’una zingara», e il “sorbetto” di Albazar, «Ah, sarebbe troppo dolce» (entrambi non di Rossini); cambia la cavatina di Fiorilla – «Presto, amiche, a spasso, a spasso», canonizzata l’anno dopo nella Gazzetta, in luogo di «Non si dà follia maggiore» – e il rondò della medesima è ritoccato; entrano nuovi recitativi di collegamento tra “numeri” diversi nonché, soprattutto, una cavatina per Narciso, «Un vago sembiante», e un’aria risarcitoria per Geronio, «Se ho da dirla, avrei molto piacere» (entrambe di paternità dubbia, ma squisite e benvenute); nell’atto II cadono anche – e questo è l’unico disavanzo – il coro e cavatina di Fiorilla, «Non v’è piacer perfetto … Se il zefiro si posa», e il successivo duetto della medesima con Selim, «Credete alle femmine».

Il turco in Italia nella versione romana fa al caso non solo del Valle d’Itria e dei suoi scopi d’indagine, ma anche degli specifici artisti convenuti in locandina e di alcune contingenze pratiche dello spettacolo. Sotto questo secondo aspetto, per esempio, una presenza ridotta del coro argina un’anomalia imputabile non alle volontà di direttore e regista, ma piuttosto a scarsi tempi di prova o a indennità richieste e respinte: il coro maschile del Petruzzelli, cioè canta nascosto dentro le torri che serrano sui fianchi la scena; nascosto ma non troppo: lo si intravede, dietro il tessuto nero, mentre tiene pose poco composte, strepita sgarbatamente i propri interventi e ignora i vistosi richiami del podio; perché procurare quasi a dolo quest’unica macchia, dopo la sollecita prova nel Paese dei campanelli, in un ottimo spettacolo altrimenti coeso nelle parti? Parti vocali, innanzitutto. C’è una primadonna, il soprano Giuliana Gianfaldoni, che al debutto come Fiorilla rinnova l’incanto di una vocalità plastica per natura e forbita per tecnica, pronta all’escursione vocalizzata attraverso i registri nonché a quella dalla maliziosità comica al tragico pentimento. Come mattatore della situazione s’impone il baritono Giulio Mastrototaro: apprezzato già altre volte come Geronio, qui, assistito come mai prima, supera sé stesso per entusiasmo e vividezza, sgranando sillabati veloci invero virtuosistici. C’è chi ha scritto che il tenore Manuel Amati, come Narciso, merita la lode per avere il timbro come quello di Juan Diego Flórez; ma è inesatto: Amati ha timbro assai più malioso, con una comunicativa più tenera. Ancora da sgrossare belcantisticamente il florido vocione del basso Adolfo Corrado, qui Selim; sorprende la grana contraltile di Ekaterina Romanova, una Zaida che può evolvere in Tancredi. Funzionali, come Albazar e Prosdocimo, il tenore Joan Folqué (poiché la parte è piccola) e il baritono Gurgen Baveyan (poiché defilato è il piglio). Con regìa di Silvia Paoli, scene di Andrea Belli e costumi di Valeria Donata Bettella, l’azione si svolge impeccabilmente in una spiaggia dolcevitosa. Mentre una meraviglia, con l’orchestra barese, è la concertazione di Michele Spotti, vanitosa e rivelatoria nella continua, imprevedibile, teatrale mobilità di tempi staccati e colori trovati: se in una lettura musicale sono state date spalle forti a ogni aspetto, rasentare il fine a sé stesso diviene l’ultima rifinitura e un atto d’amore. Nel 2024 il Festival compirà 50 anni: mediti frattanto su ciò che vuol essere e su ciò che il suo pubblico desidera sia.


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