Pesaro: Aureliano in Palmira fiasco di successo

Può un’opera nascere come ‘fiasco’, vivere come successo e anticipare il futuro pur risultando un falso storico?

L’ Aureliano in Palmira di Gioacchino Rossini (Milano, Teatro alla Scala – 1813) passò alla storia per il suo clamoroso insuccesso, solo parzialmente colpa dell’inventiva del pesarese.

Ma al di là di cantanti non performanti o fuori ruolo e di una drammaturgia oggettivamente appesantita, forse la cause dell’insuccesso di allora sono da ricercare altrove.

Ne parla dettagliatamente Daniele Carnini, direttore editoriale della Fondazione Rossini, nel libretto di sala che accompagna questa ripresa dell’opera all’interno della 44esima stagione del ROF, Rossini Opera Festival.

Il pubblico, stanco delle continue guerre, frizioni, e campagne belligeranti, si era forse stancato di opere travestite da propaganda con il messaggio ‘guerra-sottomissione-clemenza’ alla ricerca di nuovi stimoli artistici ma anche identitari.

Mi piace allora pensare al pubblico odierno fra la prima di questa produzione firmata da Mario Martone nel 2014 e il pubblico presente alla Vitrifrigo Arena in questa ripresa per il cartellone del 2023. Se nove anni fa, lo spettatore guardava ad Oriente, allarmati dall’avanzare politico e mediatico dello Stato Islamico che da lì un anno avrebbe distrutto il patrimonio culturale della Palmira stessa luogo di quest’opera, ma sentivamo lontani l’avanzare russo nelle regioni allora ucraine del Donbass, oggi abbiamo quasi scordato il conflitto mediorientale, allarmati dalla guerra russo-ucraina che proprio allora aveva mosso i primi scossoni.

Nonostante siano passati più di due secoli, il pubblico di allora non risulta molto distante da quello di oggi.

Rossini comprese il valore della propria composizione e da quel insuccesso seppe far germogliare uno dei suoi più grandi e riusciti successi, la sinfonia del Barbiere di Siviglia. Ma come può una composizione orchestrale introdurre un dramma serio e al contempo un’opera buffa? È forse nella risposta a questa domanda che risiede il grande successo della concertazione di George Petrou, a capo dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini.

Il direttore greco riesce nell’impresa di obliare centinaia di ascolti rossiniani e restituire all’identica sinfonia un vestito drammatico. Non sorprende quindi che l’intero dipanarsi della drammaturgia musicale sia quello che ci si aspetta da un ottimo artista: dinamiche e agogiche necessarie, supporto musicale ai cantanti, ricerca dei dettagli orchestrali.

Merito forse anche della sua forte esperienza nel repertorio barocco di cui Rossini ne è diretto discendente e non avulso compositore.

Molto bene il risultato sonoro complessivo dell’orchestra e in particolar modo gli interventi dei cornisti Enrico Barchetta e Artem Kozlov.

Contemporaneamente la visione registica di Mario Martone, riallestita per l’occasione, ricorda quei film dell’epoca d’oro del cinema che raccontavano le grandi gesta bibliche o storiche e dove, il dibattuto finale, in cui il regista opta per ristabilire la verità storica non facendo genuflettere l’Oriente nei confronti di Roma come da libretto, ricorda molto quei momenti da fine film, prima dei titoli di coda, in cui il regista ci racconta cosa è successo ai protagonisti della storia appena conclusa.

Martone non impone la sua visione su quella di Rossini e Felice Romani, pone un asterisco a margine, ferma la scena e svela il falso storico.

Il finale, con il suo carico di polemiche, forse adombra il vero successo della regia: riuscire a far scorrere tre ore di spettacolo, a dispetto, come detto, di un libretto impegnativo. In questo grande ruolo rivestono la cura dei recitativi, spesso vera sirena del successo registico, in cui Martone opta per il continuo a vista (la brava Hana Lee) che ci fa da ponte con la finzione scenica.

Sul versante canoro, è facile lodare il risultato complessivo.

La coppia protagonista (non ce ne voglia il ruolo eponimo), Arsace – Raffaella Lupinacci e Zenobia – Sara Blanch, è una combinazione di casting ad altissimo risultato, sia vocale che attoriale.

Entrambi i personaggi si modellano man mano evolvendo con il dipanarsi della trama, soffrendo dell’imposta lontananza per arrivare poi al culmine del duetto ‘Mille sospiri e lagrime’ in cui il bacio fra le protagoniste scioglie le tensioni e ricongiunge le strade dei due personaggi.

Nel ruolo di Aureliano, Alexey Tatarintsev tratteggia il condottiero romano con severa moralità, vincendo ogni singola sfida vocale del ruolo ma risultando, per la già citata scelta registica, il cattivo della situazione.

 

Di ottima resa il resto del cast che trova in Marta Pluda (Publia) e Davide Giangregorio (Licinio) qualcosa un gradino al di sopra del comprimariato. Puntuali le parti di Oraspe, Sunnyboy DlaDla, del Gran Sacerdote, Alessandro Abis, e del pastore, Elcin Adil.

Bene il Coro del Teatro della Fortuna, preparato da Mirca Rosciani, che si destreggia egregiamente anche nel risultato scenico.

Applausi ripetuti praticamente a fine di ogni scena e poi ancora più accesi a fine spettacolo per tutto il cast.

Carlo Emilio Tortarolo
(12 agosto 2023)

La locandina

Direttore George Petrou
Regia Mario Martone
Scene Sergio Tramonti
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Regista collaboratore Daniela Schiavone
Personaggi e interpreti:
Aureliano Alexey Tatarintsev
Zenobia Sara Blanch
Arsace Raffaella Lupinacci
Publia Marta Pluda
Oraspe Sunnyboy Dladla
Licinio Davide Giangregorio
Gran Sacerdote Alessandro Abis
Un pastore Elcin Adil
Maestro collaboratore al fortepiano Hana Lee
Orchestra Sinfonica G. Rossini
Coro del Teatro della Fortuna
Maestro del Coro Mirca Rosciani

4.9 9 voti
Vota l'articolo
Iscriviti
Notificami

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

0 Commenti
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti