Recensioni - Opera

A Macerata una Lucia coi pantaloni

Terzo titolo in cartellone per il Macerata Opera Festival

Lucia di Lammermoor torna dopo un ventennio allo Sferisterio con una nuova produzione la quale, pur inserendosi nel solco di una ben consolidata tradizione che fa del rispetto pressoché totale del libretto un suo punto di forza, si affida d’altro canto alle nuove tecnologie e alle videoproiezioni, ideate per l’occasione da Étienne Guiol e realizzate da Malo Lacroix, per ricreare l’ambientazione all’interno della quale si svolge la vicenda.

La scena è spoglia, se si eccettuano i pochi arredi del castello di Lammermoor e le lapidi che richiamano il cimitero dei Ravenswood; tutto è affidato alla tridimensionalità delle videoproiezioni in una scelta di essenzialità minimalista che, in uno spazio vasto come quello dell’arena, risulta comunque coraggiosa e, in ultima analisi, di indubbia efficacia.

Ecco che sul grande muro di fondo si susseguono una dopo l’altra le varie immagini della vicenda: il lido sabbioso su cui si svolge la scena corale iniziale, la fontana presso la tomba della madre della protagonista che prende la forma di una vivace cascata, l’anticamera del castello di Enrico decorata a boiserie, l’ombra di quanto rimane della dimora dei Ravenswood che si staglia su un cielo di fuoco, la cimiteriale visione notturna del finale.

Su tutto domina il mare, un mare burrascoso ed agitato come spesso è quello di Scozia e che metaforicamente simboleggia il ribollire interiore dell’animo dei personaggi, un mare che ad ogni cambio quadro risuona in arena col suo frangersi turbinoso quasi a ricordare lo spirito romantico sotteso all’opera stessa.

L’unica licenza “poetica” che trasgredisce i dettami del libretto la si trova proprio sul finale, centro di tutto il dramma, quando Edgardo scava nel terreno dove Lucia è appena stata sepolta cercando quasi di riportarne in vita il cadavere, per poi dirigersi verso il cielo tenebroso di fondo senza commettere suicidio.

Splendidi e curatissimi i costumi di Rudy Sabounghi che riportano l’azione all’epoca di composizione dell’opera.

Centro delle attenzioni registiche di Jean-Louis Grinda è la figura della protagonista, dipinta come una donna forte, coraggiosa, che si ribella alle ragioni politiche e sociali che la obbligano al matrimonio, una giovane costretta a dismettere gli abiti maschili che la caratterizzano fin dall’inizio per indossare l’abito nuziale segno di una sottomissione forzata ad un rito patriarcale profondamente osteggiato.

Ruth Inesta incarna una Lucia dolce e tenace al tempo stesso, mai di maniera. Lo strumento è purissimo, l’emissione dotata di grande morbidezza, il fraseggio intelligentemente cesellato; il vero punto di forza sta comunque nella continua e delicata ricerca di sfumature, unita ad acuti e sovracuti sempre a fuoco.

Di grande eleganza l’Enrico Ashton di Davide Luciano che evidenzia un’ottima proiezione vocale unita a una grande capacità interpretativa nell’incarnare la figura sfaccettata di un fratello autorevole e volitivo, tuttavia sinceramente pentito delle proprie azioni nel finale. Splendido il duetto con Edgardo in cui egli ostenta aristocratica fierezza, supportato da una linea di canto ferma e decisa.

Vocalmente molto dotato l’Edgardo di Dmitry Korchak, solidissimo in tutti i registri e dallo squillo potente, ma con una certa tendenza a “stupire” che nella scena finale rischia di compromettere in qualche modo l’intonazione, sebbene al netto di tutto l’interpretazione risulti comunque di grande qualità ed impatto emotivo.

Bene l’Arturo di Paolo Antognetti che brilla per consistenza del personaggio e per smalto vocale; meno a fuoco il Raimondo di Mirco Palazzi che, stranamente, palesa in questa occasione qualche incertezza, soprattuto nel registro superiore.

Per quanto concerne i comprimari, buona l’Alisa di Natalia Gavrilan, davvero debole invece il Normanno di Gianluca Sorrentino.

Di qualità, superata qualche difficoltà iniziale di rapporto con la buca, la prova del Coro lirico marchigiano “V. Bellini”, sempre ben preparato da Martino Faggiani.

Tempi un poco oscillanti per la direzione di Jordi Bernàcer che, sebbene presenti alcuni elementi di disomogeneità, oltre al merito di aver aperto i diversi consueti tagli, ha anche quello di aver tentato una lettura che superi una certa tradizione troppo consolidata e che in alcuni passaggi riesca ad aprirsi a scorci di grande lirismo e finezza.