Torre del Lago, 69º Festival Puccini 2023: “Il Tabarro” & “Il castello del Duca Barbablù”

Torre del Lago (LU), Gran Teatro “Giacomo Puccini”, 69º Festival Puccini
IL TABARRO”
Opera in un atto, su libretto di Giuseppe Adami tratto dal dramma “La houppelande” di Didier Gold
Musica di 
Giacomo Puccini 
Michele LUCIO GALLO
Luigi, scaricatore AZER ZADA
Giorgetta, moglie di Michele MONICA ZANETTIN
Il Tinca ENRICO CASARI
Il Talpa FRANCESCO AURIEMMA
La Frugola, moglie del Talpa LORIANA CASTELLANO
Un venditore di canzonette GIANMARCO LATINI MASTINI
Due amanti FRANCESCA MANNINO, MARCO MONTAGNA
“IL CASTELLO DEL DUCA BARBABLÙ” (A kékszakállú herceg vára)
Opera in un atto su libretto di Béla Balász, tratto dal dramma “Ariane et Barbe Bleu” di Maurice Maeterlinck
Musica di 
Béla Bártok
Judit SZILVIA VÖRÖS
Barbablù ANDREA SILVESTRELLI
Orchestra e Coro del Festival Puccini
Direttore 
Michele Gamba
Maestro del Coro Roberto Ardigò
Regia Johannes Erath
Scene Katrin Connan
Costumi Noelle Blancpain
Luci Alessandro Carletti
Video Bibi Abel
Allestimento del Festival Puccini in coproduzione col Teatro dell’Opera di Roma nell’ambito del progetto “Il Trittico Ricomposto”
Torre del Lago (LU), 26 agosto 2023
Molto si è discusso e già scritto sul progetto di “Trittico ricomposto” portato avanti da Roma e Torre del Lago: ci approcciamo dunque alle esecuzioni al Festival con cautela e una giusta dose di curiosità, desiderosi sia di poter deplorare, ma anche di rimanere sorpresi. Come i più assidui dei miei lettori potranno immaginare, la sorpresa, in questo caso, ha preso il sopravvento sul piacere della critica: questo dittico Puccini vs Bártok funziona, sia nel senso estetico – giacché si percepisce l’unitarietà del progetto scenico -, sia in senso musicale: associare “Barbablù” al “Tabarro” mette in luce sia il carattere eminentemente narrativo e quasi pittorico dell’operina di Bártok, ma soprattutto evidenzia la grande modernità della partitura pucciniana, così lontana dalla precedente “Rondine” e ormai consapevole attante del XX secolo. Johannes Erath si approccia a questa inedita coppia operistica con sorprendenti lucidità e coerenza: costruisce una scena gelida, ma allo stesso tempo quasi aliena, dominata dai toni di blu e grigio, che a loro volta si trasformano in acqua e aria nelle interessanti proiezioni che dialogano costantemente con la scena (curate da Bibi Abel); essa, a sua volta, segue due direttrici narrative, quella della trama (grossomodo rispettata, per quanto manchi l’eponimo tabarro) e quella della chiave registica, che si esplicita in un massicio ricorso ad abili figuranti – invero apprezzati maggiormente su Barbablù” che sul “Tabarro”, ma comunque sempre impegnati in una prova scenica simbolica e muscolare allo stesso tempo. Il corpo è al centro di questo dittico, e la violenza che esso può perpetrare o può subire, nelle sue diverse forme, dalla brutalità di Michele al sottile masochismo di Judit, dalla basica carnalità della coppia Giorgetta-Luigi all’amore tossico del Duca Barbablù, fino alle oppressioni della psiche che schiacciano i vari protagonisti e si incarnano nel lavoro degli attori. Le scene raffinate e lineari di Katrin Connan interagiscono (quarto elemento di questa vera “rapsodia in blu”) e conferiscono significati più marcati all’azione, soprattutto la torre di scale nere che si sposta in continuazione e su cui si esplicitano i fantasmi di Judit come le Midinette parigine immaginate da Puccini, allo stesso tempo girone infernale e carcere delle pulsioni. Se l’assetto scenico ci colpisce – pur nell’inintelleggibilità di alcune scelte, che, tuttavia, rientra nell’atmosfera di sospensione onirica che si ricrea in scena – sul piano vocale assistiamo a delle prove generalmente valide, ma con pochi artisti in grado di distinguersi davvero. Lucio Gallo, ad esempio, trova in Michele probabilmente il suo ruolo-feticcio: dalla sua interpretazione traspare il lavoro profondo sul personaggio, che si esprime nella piena coincidenza di fraseggio e lavoro scenico. Quasi superfluo specificare che la voce è ampia, ricca di colori, sonora dai gravi agli acuti e che la linea di canto si costruisce sul naturale andamento dell’eloquio. Altro artista che si distingue – soprattutto poiché sostituisce all’ultimo il povero Johannes Martin Kränzle, finito in ospedale – è Andrea Silvestrelli, talentuoso basso di stanza per lo più negli USA: il suo Barbablù ha un’intensità e dei colori forse troppo “italiani”, ma contemporaneamente conferisce al personaggio una tridimensionalità per nulla scontata. Il Duca si avvale della sua vocalità ampia e calda, tonitruante specie nei gravi – più approssimativa negli acuti –, e dell’imponente quanto elegante fisicità di Silvestrelli, che pure scenicamente si mette in discussione con la regia molto corporea. Accanto a lui, Szilvia Vörös si rivela la più brillante stella della serata, una Judit potente, incisiva, ma anche fragile e dolente, priva – vivaddio – dell’esasperazione di cui il ruolo è spesso caricato oltralpe: la voce della Vörös si sostiene con una solida tecnica che piega al fraseggio più attento e la prova scenica è sicura e consapevole. Fra le altre interpretazioni del “Tabarro”, si mettono in luce la Frugola di Loriana Castellano, soprattutto per la rotondità del suono e il bel colore smaltato, e il Venditore di Canzonette Gianmarco Mastini Latini, tenore chiaro ma non troppo leggero. Spiace constatare invece come Monica Zanettin – altrove distintasi positivamente – non trovi in Giorgetta un ruolo con il quale riesca ad entrare in contatto davvero: la voce è senz’altro interessante, sebbene emerga qualche debolezza nei centri; la Zanettin ci sembra spaesata nella regia simbolica ed immaginifica, e questo inficia anche la prova vocale. Infine, Azer Zada (Luigi) non ci pare proprio in serata: la linea di canto è disomogenea, il registro acuto forzato e il fraseggio sopra le righe. La concertazione del maestro Michele Gamba si dimostra più prudente su Puccini, senza comunque mostrare alcune discrasie tra buca e scena, ma è su Bártok che trova un’espressione più personale, orientata a illuminare i passaggi più impressionisti della ricca partitura – in pieno accordo con il suggestivo assetto scenico. Quando si arriva alla fine di questo dittico, si ha la chiarissima sensazione di aver assistito a qualcosa di potente e catartico; nondimeno più di una punta d’amarezza si insinua, quando ci accorgiamo di quanti abbiano lasciato l’arena durante l’intervallo o durante la recita del “Barbablù”, credendo di mostrare chissà quale superiorità artistico-morale sull’opera ungherese, e facendo invece chiaro sfoggio solo di cattivo gusto. C’è da chiedersi se si comporteranno con simile sprezzo anche ai prossimi capitoli di questo “Trittico ricomposto”, che prevederanno “Suor Angelica” accostata al “Prigioniero” di Della Piccola e “Gianni Schicchi” a “L’heure espagnole” di Maurice Ravel – due scelte che già stanno ingolosendo coloro che amano l’opera e non i pregiudizi.