di Attilio Piovano
Il pubblico torinese – solitamente compassato, se non addirittura freddo dinanzi alle prime – ha invece decretato, occorre ammetterlo, un successo a dir poco incredibile e davvero stupefacente (in pochi lo avevano messo in conto, in virtù del titolo desueto) la sera di giovedì 21 settembre 2023 con diretta su Rai Radio3, per il nuovo, imponente allestimento della Juive di Fromental Halévy (suocero di Bizet), firmato da Stefano Poda, che al Teatro Regio ha inaugurato la stagione. Sul podio Daniel Oren, che già la diresse a Londra e Parigi tra il 2006 e il 2011, a governare con mano salda il tutto, sia pure con tempi talora eccessivamente allentati.
E si è trattato di una produzione ragguardevole sotto vari punti di vista, in primis, quanto a numero di maestranze coinvolte (duecento artisti «tra solisti, professori d’orchestra, artisti del coro, ballerini, mimi e figuranti per un gigantesco meccanismo teatrale», dichiara il sovrintendente Jouvin), in francese con sopra titoli in italiano.
Siamo di fronte infatti a un fastoso e a suo modo paradigmatico grand-opéra in cinque atti, quasi una sorta di Kolossal, su libretto (invero niente affatto eccelso) del pur navigato Eugène Scribe, che nel febbraio del 1835, alla faraonica première assoluta, all’Opéra di Parigi, ebbe accoglienze trionfali, sì da segnare il vero e proprio apogeo del genere (al pari degli Huguenots di Meyerbeer). Un’opera, come è stato notato, «entrata di prepotenza nella storia della musica per valori che vanno oltre gli indubbi meriti musicali». Tra gli ingredienti vi è innanzitutto il conflitto storico-religioso (si è parlato di ‘attualità’ del tema che richiama l’antisemitismo o, più in generale, i fenomeni di intolleranza religiosa se non di vero e proprio fanatismo) a far ben più che da sfondo a una vicenda di forte drammaticità e innegabile tensione; entro l’ambientazione storica si inseriscono poi anche il pathos dei sentimenti e delle contrastanti passioni a forti tinte che i protagonisti si trovano a vivere, secondo un topos di natura palesemente romantica. Una partitura che conobbe l’ammirazione incondizionata ed entusiasta, tra gli altri, del giovane Wagner, di Berlioz e Mahler i quali, pur con un filo di forse eccessiva sopravvalutazione, ma con comprensibili ‘motivazioni’, intesero evidenziarne il notevole e innegabile valore squisitamente musicale, nonché l’elevata qualità della variegata strumentazione dalle mille screziature (inclusi taluni inusitati ‘effetti’): ogni situazione un colore, una ‘tinta’ per dirla con Verdi, appropriata ed efficace. Perfino Proust ebbe a citarla nella sua monumentale opera letteraria.
In sintesi, questa la trama. Ci troviamo a Costanza nel 1414. L’ebrea Rachel che tutti credono figlia del ricco gioielliere Eléazar, ama (corrisposta) il principe Léopold ch’ella immagina essere il pittore Samuel e che crede appartenente alla sua stessa religione, mentre invece è cristiano. Quando lo scopre, nel giorno in cui in casa si celebra la Pasqua ebraica, ne è sconvolta sentendosi legittimamente tradita e ingannata. Léopold infatti è altresì amato da Eudoxie, anzi ne è il fidanzato. La rivelazione avviene quando Eudoxie consegna a Léopold, chiamandolo suo sposo, una catena acquistata presso la bottega di Eléazar sulla quale ne ha fatto incidere le iniziali. Il conflitto tra le due donne diviene ovviamente insanabile.
All’inizio dell’opera, nel giorno di apertura del Consiglio, col popolo in festa, il gioielliere Eléazar, su istigazione del gran prevosto Ruggero, era stato arrestato. Si intendeva infatti condannarlo a morte assieme alla (presunta) figlia Rachel in quanto avrebbe infranto il divieto di lavorare il giorno di festa, ma il cardinale Brogni che lo aveva conosciuto a Roma, anni addietro, lo perdona e lo libera, nel ricordo commosso di quando, non ancora consacrato, perdette la moglie e la figlia in un incendio. Dopo la rivelazione, Rachel si accusa pubblicamente di essere l’amante di Léopold, segnando in tal modo la condanna a morte per stessa e altresì per Léopold; questi, però, viene esiliato, grazie all’ebrea che lo scagiona (su pressione dell’implorante Eudoxie), mentre ella stessa, affiancata dal ‘padre’, si avvia al supplizio. Eléazar, nel frattempo, ha avuto modo, di svelare al cardinale come la di lui figlia in realtà non fosse perita in un incendio bensì fosse stata salvata da un misterioso ebreo. Eléazar non aggiunge altro, insinuando nel cardinale il dubbio circa la sorte della ragazza, poi supplica Rachel di abiurare accettando il battesimo, ma costei sdegnosamente rifiuta. Frattanto, tormentato dal passato, il cardinale chiede espressamente ad Eléazar della propria figlia, se sia ancora viva e dove si trovi. Eléazar a quel punto gli addita Rachel nel momento stesso in cui costei cade nella caldaia bollente (per inciso una sorta di stereotipo di vendetta che, pur rivisitato a suo modo, ritroveremo poi nel verdiano Trovatore).
A Torino La Juive venne rappresentata l’ultima volta nel 1885 (vi era approdata, in versione in lingua italiana, venti anni prima); sicché l’attuale ‘ripresa’ dopo oltre 130 anni di oblio, assume il significato di un vero e proprio avvenimento storico. Ciò che immediatamente si è imposto all’apertura del sipario è l’aspetto ‘visuale’ dell’allestimento ideato da Poda con quel mix di visionaria immaginazione, razionalità compositiva, cultura, e rabdomantica sensibilità che gli sono congeniali. Poda che, come già per gli indimenticabili allestimenti torinesi di Thaïs, Turandot e Faust, ancora una volta firma regia, coreografia, scene, costumi e luci (col risultato di una ‘linea’ e un ‘segno’ del tutto coerenti tra le varie componenti) ha fatto le cose in grande: sfruttando in toto le non comuni potenzialità tecnologiche della sala molliniana, nell’anno in cui si celebra il 50° dell’edificazione del nuovo Regio, grazie appunto al geniale architetto torinese, e dunque i celebri sette ponti mobili, ma anche lo ‘sfondato dorsale’ sì da conferire vastità di impianto a quella che è stata definita, forse un poco impropriamente, una sorta di cattedrale laica.
La partitura presenta momenti di innegabile bellezza, nel suo curioso e spregiudicato eclettismo, dove c’è spazio per assonanze varie (perfino un passo dal ‘sound’ singolarmente russo), vaghi echi pseudo-rossiniani, melodie di belliniana purezza accostate a tratti di forte tensione drammatica, recitativi dalla enorme pregnanza, vistosi ‘anticipi’ di certo Verdi e altro ancora. Beninteso, non tutto è oro colato, talora a predominare – ammettiamolo – è una certa prolissità che Oren non ha attenuato (pur in presenza di generosi tagli: e ciò, sia detto nel massimo rispetto dei filologi intransigenti). Orchestra in gran spolvero e assolutamente all’altezza in tutte le sue sezioni: non a caso ne è emersa una performance più che convincente, fatte salve le lentezze di Oren e le lungaggini insite nella partitura, dunque verrebbe da dire ‘strutturali’.
L’impianto scenico di Poda, nel gioco colto dei rimandi e dei vari suggerimenti visuali (per dire l’Ultima cena ‘coraggiosamente’ evocata in apertura del second’atto, quando in realtà si celebra la Pasqua ebraica in casa del gioielliere), affascina fin dal primo istante: dominato dalla grande Croce luminescente sul fondo, attorniata da una installazione costituita da una miriade di simbolici «cristi caduti» (Poda), così pure dalla iscrizione-monito desunta da Lucrezio, un celebre esametro del De rerum natura, a designare il fanatismo «Tantum religio potuit suadere malorum» (quasi epitaffio per il sacrificio di Rachel «simbolo dell’oppressione di ogni minoranza», come già era stato – ci rammenta Poda – per Ifigenia); allestimento dominato poi da una struttura circolare in movimento sospesa. I cambi repentini di luce (bellissimi), i movimenti simmetrici della masse, quei corpi ammassati in maniera ben più che simbolica, i cadaveri appesi al di sotto di uno dei ponti mobili, le coinvolgenti coreografie ‘pensate’ con dosaggio millimetrico di spazi e movimenti e altro ancora contribuivano a rendere il tutto armonioso e coerente. Poda riprende alcune sue costanti: per esempio moltiplica in innumeri teche il gioiello che innesca un vero coup de théâtre, come già ‘moltiplicò ‘il personaggio di Turandot replicandolo e specchiandolo nelle varie componenti del coro. Pochi dettagli lasciati allusivamente (e, immaginiamo, volutamente) alla libera interpretazione dello spettatore aggiungono un quid di misterioso. Un palcoscenico – puntualizza Poda che dell’opera dà una visione legittimamente simbolica – volto a rappresentare «un grande affresco di una cristianità dominatrice, ma dilaniata dalla sua secolarizzazione, che ha distorto il messaggio originale. Esso ritorna come un monito nel susseguirsi di svariate scene della vita di Cristo, dall’atto primo, con Gesù festeggiato durante le Palme, sino alla Sua Passione dell’epilogo che coincide con quella di Rachel. Una via crucis religiosa e laica al tempo stesso, che accompagna i personaggi e la società nella loro discesa verso l’abisso».
Di alto livello il cast. Meritatamente ammirata Mariangela Sicilia (soprano) che, al debutto nei panni della protagonista Rachel, l’ebrea del titolo, ha fornito una prova davvero eccellente per intensità ed efficacia: sia sul piano squisitamente vocale, sia quanto a recitazione. Apprezzata fin dall’esordio, così pure nel prosieguo dello spettacolo nel ruolo che fu scritto per la celebre Marie Cornélie Falcon. Gran mattatore il tenore Gregory Kunde, tuttora a vertici altissimi, in grado di innescare stupita ammirazione nel ruolo non facile (e invero ambiguo) del personaggio di Éléazar «accecato dal suo diabolico disegno e dalla sua sete di vendetta» (la cui parte, ‘pensata’ per il grande Nourrit, è davvero impervia). Non a caso, tra i momenti che hanno suscitato maggior emozione, la vibrante e grande aria patetica di Eléazar «Rachel, quand du Seigneur» (atto IV) che Kunde ha interpretato con una vis, una partecipazione emotiva e una bravura davvero incredibili, facendo letteralmente crollare il teatro per l’entusiasmo.
Bene poi anche il basso Riccardo Zanellato, gradito ritorno al Regio, ad impersonare il cardinale Brogni (apprezzato fin dalla cavatina «Si la rigueur et la vengeance»), positiva figura di padre in anticipo sui verdiani personaggi paterni che allignano in Luisa Miller, Rigoletto e in Traviata pur con i dovuti distinguo. Valida la principessa Eudoxie sbozzata da Martina Russomanno (un altro momento di grande efficacia drammaturgica è quello in cui Rachel apprende del doppio tradimento e le due donne si trovano a fronteggiarsi, dopo questa sorta di vera e propria agnitio). Qualche difficoltà, la sera della prima, per il tenore rumeno Ioan Hotea (Léopold). Bene poi anche il baritono Gordon Bintner (Ruggiero), ottimi tutti i comprimari. Un plauso specialissimo al Coro del Regio – ottimamente istruito da Ulisse Trabacchin – una presenza davvero di rilievo entro la partitura di Halévy, a delineare il significativo ruolo giocato in più passi dal popolo, quasi turba bachiana, sia concesso il parallelo azzardato, una folla in grado «di passare dal giubilo al linciaggio», laddove abilmente e artatamente manipolata.
Cinque le repliche sino al 3 ottobre, dopo la prima, preceduta a sua volta dall’anteprima giovani. Comprensibile la relativa esiguità di recite, data la natura del titolo poco noto al grande pubblico; è stato tuttavia un peccato, considerato l’enorme sforzo produttivo (e di fatto anche in virtù dell’indubbio successo riscosso).