Recensioni - Opera

Le distopie estetizzanti del Trovatore di Livermore

Classicismo tecnologico e supposta contemporaneità nella lettura scenica. L’Azucena di Clementine Margaine conquista il Teatro Regio.

Il festival Verdi affida la sua produzione di punta di quest’anno alla regia di Davide Livermore, coadiuvato dai suoi collaboratori storici: Giò Forma per le scene, il team D-WOK per i video e i costumi di Anna Verde.

Livermore torna ad utilizzare in maniera preponderante le immagini, ambientando il Trovatore in un futuro distopico giocato sui contrasti, con reminiscenze filmiche hollywoodiane. Da una parte la solidità borghese di un Conte sempre in giacca e cravatta, attorniato da sgherri vestiti di nero con tanto di mitra nel miglior stile mafioso, ma potrebbe essere anche una versione povera di Matrix. Dall’altra una carovana del circo, con clown che sembrano usciti da un film dell’orrore alla Stephen King, Manrico che dovrebbe essere un saltimbanco alla Zampanò e la povera Azucena una homeless senza speranza.

L’azione si svolge fra palazzi futuribili, ruote panoramiche stile Prater viennese, chapiteau circensi di richiamo romantico e favolistico, viadotti in cemento dove fanno bella mostra le tanto amate autovetture distrutte, carrelli della spesa e pneumatici. Non può poi mancare un richiamo ad un palazzo in stile Stasi berlinese per il carcere di Manrico, con tanto di nevicata; oppure la luna nel primo atto insieme alle onde del mare.

Sovrabbondanza di segni visivi. In parole povere “troppe immagini Herr Livermore” a cui il diretto interessato non potrà che rispondere come Mozart: “non una più del necessario”.

Qui sta infatti il punto. Tutto è visivamente accattivante, bello, ben organizzato, suggestivo e, per chi non è troppo familiare con l’opera, vario, distraente e spettacolare. Insomma se anche la trama annoia un po’ c’è sempre qualcosa da guardare. E bisogna dirlo: tutto è assolutamente ben fatto, accurato, a tratti fin troppo “leccato e laccato”.

Quadri visivi. Distopie estetizzanti. Una tragedia ricostruita con l’assommarsi di bellissimi fotogrammi di un lungometraggio teatrale. Inevitabile però che i personaggi siano figure dipinte, marionette di un quadro filmico. Non si scambi il lavoro di Livermore, almeno questo, per Regietheater: non lo è.

Qui ci troviamo davanti ad un allestimento decorativo all’italiana fatto con mezzi contemporanei.

L’ultimo Zeffirelli all’Arena aveva i cavalli, Livermore le immagini e le macchine – “Concessionaria Livermore” si potrebbe ironizzare – ma il risultato e lo stesso.

Può piacere o meno, proprio come Zeffirelli, ma indubbiamente il lavoro è di grande qualità.

I cantanti coinvolti sono tutti ottimi professionisti e si adattano, chi più chi meno, allo stile richiesto. La regia potrebbe essere esaltata dagli interpreti, ma per la maggiore abbiamo riscontrato una sostanziale difficoltà scenica a seguire lo schema, ad essere naturali e convincenti per l’allestimento. Si nota una ricerca dell’asciuttezza, del controllo scenico e gestuale, ma da lì ad essere personaggi ce ne passa.

La sola che riesce ad essere completamente convincente nel personaggio è Clementine Margaine, ma per esperienza e doti sceniche personali. Il mezzosoprano è l’assoluta mattatrice della serata, accolta da una vera e propria ovazione nel finale. La sua Azucena è completamente credibile: allucinata, dallo sguardo fisso, maniacale nei gesti, precisa e convincente in ogni intenzione. A ciò si aggiunga una voce salda, di ampio volume; un timbro di smalto brunito nei gravi e sciabolante negli acuti. Fraseggio attento e consapevole completano una prova indimenticabile per il bravo mezzosoprano francese.

Al suo fianco spicca per voce e interpretazione il Ferrando di Roberto Tagliavini, che si impone per timbro, volume e fraseggio nell’aria del primo atto. Manrico era Riccardo Massi che gestisce la parte con attenzione e ha dalla sua una bella voce tenorile usata con intelligenza. Per lui grandi applausi alla “Pira”, che risolve con prudenza e professionalità.

Francesca Dotto è stata una Leonora dal volume non amplissimo, ma che è riuscita a convincere in particolare negli atti finali. Giovanni Meoni, che ha sostituito l’indisposto Franco Vassallo, è un baritono solido e professionale. Ha convinto nella sua aria “Il Balen del suo sorriso” concludendo poi la recita con sorvegliata prudenza. Puntuali sia la Ines di Carmen Lopez, che il Ruiz di Didier Pieri.

Francesco Ivan Ciampa dirige con la consueta competenza e esattezza nei tempi, meritandosi grandi applausi dal pubblico parmense.

Nel finale vivo e convinto successo per tutti, con ovazioni per Clementine Margaine.

Raffaello Malesci (Domenica 1° ottobre 2023)