L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Doppio Verdi alla Fenice

di Francesco Lora

La traviata di Ranzani e Carsen, da una parte, e I due Foscari di Rolli e Asagaroff, dall’altra, hanno sorti inverse quanto a direzione e regìa. In entrambi i casi, notevoli le compagnie di canto, con la Feola, Pretti e Viviani a fronte di Salsi, Meli e la Bartoli.

VENEZIA, 22 settembre e 14 ottobre 2023 – Se c’è un teatro dove gli abitanti della città costituiscono una minoranza del pubblico, quello è comprensibilmente la Fenice di Venezia; sorprende dunque che tale pubblico di melomani itineranti scopra in massa solo ora la debolezza dell’ultimo allestimento scenico lì presentato. Si tratta dei Due Foscari di Giuseppe Verdi con regìa di Grischa Asagaroff, scene e costumi di Luigi Perego, luci di Valerio Tiberi e coreografie di Cristiano Colangelo, ed è lo stesso allestimento varato l’anno scorso al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, dove pure c’era mezzo mondo tra pubblico e critica. Tre sono i grossi problemi, due vecchi e uno nuovo. I due vecchi: l’opera è lontana dall’orizzonte poetico del regista incaricato, che l’abbandona di fatto alla sua stasi drammaturgica, e la banalità dell’impianto scenico – un parallelepipedo centrale e rotante, che dovrebbe definire i diversi luoghi dell’azione col minimo delle strutture – si deve al temporaneo trasferimento delle rappresentazioni fiorentine dalla sala teatrale vera e propria al meno attrezzato auditorium. Il problema nuovo: la sciocca Venezia da cartolina dipinta da Asagaroff e Perego poteva essere perdonata in riva all’Arno e in una situazione d’emergenza, ma non può esserlo arrivando nel teatro storico dopo aver attraversato la Venezia reale ed esserne rimasti soggiogati un’ennesima volta. Pace.

Le buone notizie, invece, consistono nel fatto che la più veneziana delle opere verdiane è finalmente tornata in laguna dopo quasi mezzo secolo di latitanza, e nel fatto, ancora, che le cinque recite del 6-14 ottobre si sono valse di una locandina fiammante sul versante musicale. Ne è garante Sebastiano Rolli, strano unicorno della direzione d’orchestra, anzi della concertazione d’opera, cui di Verdi interessi sinceramente sondare il testo com’è scritto – parole e musica – nonché osare almeno il minimo della filologia: l’esito è di un’accuratezza e un’incisività encomiabili, unite alla generosa e colorita prestanza delle maestranze. Formidabile – sai che novità – si attesta Luca Salsi nella parte per lui ancora poco tipica del doge Francesco: non le porta ancora i capelli bianchi, ma certamente le note qualità di estensione, timbro e morbidezza, più un fraseggio già assai analitico e l’atletismo della più virtuosistica caduta vista, da tanto tempo, nel fatal spirare di un personaggio d’opera. Francesco Meli, nella parte filiale di Jacopo, si sforza di sfumare oggi più di quanto facesse ieri, mentre però i mezzi naturali vanno fiaccandosi e la tecnica non è detto che cresca di pari passo. Accanto a lui, spettinandolo con l’ostentazione di risorse abbondantissime, c’è l’appena debuttata Lucrezia Contarini di Anastasia Bartoli, mentre l’antagonista Loredano ha la tenebrosa, seducente e quasi troppo lussuosa vocalità di Riccardo Fassi.

Verdi era in verità passato per la Fenice già da un mese, per undici recite della Traviata dal 10 settembre al 13 ottobre, con l’intramontabile capolavoro registico di Robert Carsen. Tesserne ancora le lodi rasenterebbe la petulanza, ma se in giro c’è ancora qualcuno che non vi ha assistito, recuperi presto quest’obbligo di vita da melomane. Le riprese veneziane, del resto, avvengono regolari, e ciascuna di esse reca con sé qualche nuovo interprete degno d’attenzione specifica e capace di conferire una nuova declinazione. È il caso di Rosa Feola nella parte di Violetta Valéry: la recita scorre liscia, e solo quando è finita ci si rende appieno conto di quanto privilegiante sia ritrovarsi con una protagonista così ortodossa nella linea di canto, così finemente attenta a pesare la parola, così semplice eppure efficace nel porgere, così lontana da vezzi ed eccessi d’oltralpe. Quando che s’è goduta, l’ultima volta, una Violetta più autentica, senza l’arroganza preventiva d’essere riconosciuta tale? Ottimi le sono intorno Piero Pretti, per un Alfredo pieno di spirito, squillo e savoir faire canoro, e Gabriele Viviani, per uno Germont sano di note e sottile di carattere. S’intende che il veterano Stefano Ranzani, sul podio, conosca come le proprie tasche questt’opera e il mestiere: ma con una tale regìa e tali cantanti, gli stolti tagli di tradizione inflitti a cantabili e cabalette assurgono a una colpa difficile da mandare giù.


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