Torna in scena in questi giorni al Teatro alla Scala Peter Grimes, capolavoro poco rappresentato (se ne contano appena quattro allestimenti dal 1947 a oggi) di uno dei più grandi, forse il più grande, compositore d’opera del secondo Novecento, Benjamin Britten, che è sopravvissuto al nichilismo del postmoderno, maturando un linguaggio proprio refrattario alle derive dell’atonalità e del minimalismo, ed è tra i pochi ancora oggi costantemente presenti con numerosi titoli nei cartelloni dei teatri lirici di tutto il mondo. Con Peter Grimes, su libretto di Montagu Slater tratto da un poema di George Crabbe, nel 1947 Britten dà forma al mito personale che declinerà nella maggior parte delle sue opere successive: quello dell’outcast ovvero dell’individuo «diverso» che entra in conflitto con la società di cui è parte, nella maggior parte dei casi soccombendo. A proposito dell’atteggiamento di sospetto e poi di rifiuto che gli abitanti del Borgo di pescatori mostrano nei confronti del solitario Grimes, Robert Carsen, acclamato regista dell’allestimento in scena alla Scala fino al 2 novembre, spiega: «Gli abitanti del villaggio non capiscono Grimes, che a sua volta non fa alcun tentativo per farsi comprendere meglio: più gli altri sono ostili a lui, più lui si chiude e meno vuole avere a che fare con loro. In fondo è facile per un gruppo di persone isolare chiunque non gli si adatti.Con la regia di Robert Carsen, direzione del canto di Alberto Malazzi

MOLTE OPERE affrontano lo stesso tema, pensiamo a Verdi, a Janácek, e ovviamente allo stesso Britten, i cui lavori sono spesso incentrati su un diverso». Grimes, come i passati Rigoletto e Jenufa, come i futuri Billy Budd, Owen Wingrave e Gustav von Aschenbach, è esempio della parabola della «diversità» e dell’esclusione che ossessiona Britten forse per la sua condizione di omosessuale in un Inghilterra in cui l’omosessualità è ancora reato. Animando il coro che incarna il Borgo grazie alle coreografie massicce e allo stesso tempo chiare di Rebecca Howell, Carsen, grazie anche all’illuminazione espressionistica curata con Peter Van Praet, alla scenografia su due livelli di Gideon Davey e alla preziosa direzione del canto di Alberto Malazzi, rende fisicamente leggibile in ogni momento l’opposizione, la pressione, il giudizio, la condanna, l’esclusione riservate a Grimes, in un crescendo claustrofobico che precipita inesorabile verso il finale.
Unici momenti in cui l’orizzonte della storia si apre permettendo al pubblico di respirare con il ritmo disteso della Natura e non con quello sincopato del Borgo sono i quattro maestosi interludi marini disseminati nella partitura, che la direttrice Simone Young dirige con grande intensità regalandoci volumetrie e prospettive sonore di taglio sinfonico che rifuggono dal gusto cameristico in cui spesso la musica lirica di Britten viene compressa: «Il mare – spiega Young – è rappresentato musicalmente in modi diversi a seconda del tempo, dal sereno all’uragano; questi cambiamenti hanno un riflesso sul protagonista, il quale è un uomo che lavora con la natura ma anche contro la natura.

IL MISTERO delle profondità marine è in rapporto con il fatto che Grimes è in contatto sia con la natura sia con il mondo metafisico, ma è incapace di esprimersi». Il cast asseconda direttrice e regista mettendo a segno una performance che atterrisce, commuove e fa pensare. Di un pathos raro la Ellen di Nicole Car, amorevole e straziata; austero e allo stesso tempo affettuoso il Balstrode di Ólafur Sigurdarson; lacerante il Grimes di Brandon Jovanovich nonostante qualche acuto fuori fuoco.