MILANO. Perché la Scala abbia deciso di presentare una nuova produzione di Peter Grimes di Benjamin Britten è un po’ un mistero. L’ultima, per inciso bellissima, regia di Richard Jones, risaliva al 2012 e si suppone sia quindi ancora in magazzino. Per carità: più Britten per tutti è un auspicio applicabile a tutti i teatri d’opera del mondo, non se ne farà mai abbastanza. Però si fa sommessamente notare che Billy Budd, non meno capolavoro, alla Scala, direi, non è mai stato rappresentato, o che Gloriana, titolo già sbeffeggiato e oggi finalmente riconosciuto per quel gioiello che è, non è mai stata rappresentata in Italia. Insomma, il catalogo britteniano è ampio e un po’ più di varietà non guasterebbe.

Premesso questo, lo spettacolo della Scala è molto bello. Ovvio, direte, perché è griffato Robert Carsen, il regista d’opera più importante del mondo, ormai ampiamente metabolizzato anche dal pubblico e dalla critica più ancien régime. Il suo scenografo, Gideon Davey, immagina una scena unica e claustrofobica, con una balaustra praticabile per il coro, che di volta in volta diventa il municipio del Borgo dove il pescatore Peter viene giudicato per le misteriose scomparse dei suoi mozzi, la taverna del Cinghiale, la piazza del paese e, quando la scena si stringe, la sordida baracca dove Peter vive e maltratta (o peggio: come al solito, Britten non svela mai l’ambiguità) gli sventurati ragazzini freschi di orfanotrofio che lo aiutano nella pesca. Come attrezzeria, basta qualche panca, dritta o rovesciata; il resto lo fanno le luci magnifiche dello stesso Carsen e del fido Peter van Praet e i video, bellissimi, di Will Duke: il mare, vero coprotagonista dell’opera, è la faccia di Peter come “mossa” dalle onde. Carsen mostra il solito virtuosismo nel muovere solisti e masse. I costumi forse non aiutano troppo a definire le macchiette paesane della deep Inghilterra, il vicario anglicano e il predicatore metodista, la vedova pettegola, il farmacista tollerante, la tenutaria del pub con le nipotine scostumate, insomma il rovescio della medaglia di un qualsiasi Agatha Christie rurale, quello intollerante e crudele con ogni “diversità” (Britten ne sapeva qualcosa), e il primo atto dello spettacolo risulta così un po’ interlocutorio, perfino deludente. Nei due successivi Carsen fa Carsen e sale in cattedra: splendido lavoro sulla recitazione, gestione millimetrica dello spazio scenico, e momenti di gran teatro come la caccia all’uomo dei bravi borghesi che agitano le torce nel buio puntandole anche sulla platea. Come dire: attenzione, basta poco, l’intolleranza può colpire chiunque, anche voi sulle vostre comode e carissime poltrone.

In realtà di coprotagonista ce n’è anche un terzo, il Coro diretto da Alberto Malazzi. La compattezza, l’intensità e la bellezza del suono sono favolose, ma stavolta in scena ogni singolo corista diventa un personaggio. In gran serata anche l’Orchestra, evidentemente innamorata dell’australiana Simone Young: la sua direzione non è personalissima come intenzioni, ma splendida nella realizzazione, con un gran respiro sinfonico nei celebri interludi marini ma anche nelle scene di massa. L’approccio di Young è pragmatico, direi molto anglosassone: fiducia in un’opera dove tutto è scritto e si tratta solo di tradurlo in suoni, cosa che le è riuscita benissimo.

I comprimari sono eccellenti ma per citarli tutti ci vorrebbe più spazio. Mi limito al veterano Peter Rose che fa il leguleio Swallow e a Natasha Petrinsky che è mrs. Sedley, “ricca vedova di un funzionario della Compagnia delle Indie orientali” (il libretto di George Crabbe sparge queste chicche a piene mani), drogata dal laudano e, soprattutto, la ficcanaso del villaggio. Ólafur Sigurdarson è un Bulstrode molto empatico ma un po’ troppo chiaro come timbro; Nicole Car, una Ellen Orford semplicemente magnifica. Resta Brandon Jovanovich che si situa a metà strada fra i due modelli opposti di Grimes, quello di Peter Pears per il quale la parte fu scritta e quello di Jon Vickers che la reinventò (e che Britten detestava). Diciamo che la voce ha le sbiancature e le angolosità anglicane di Pears e il volume irregolare ma pieno di Vickers (un po’ meno, magari); forse il predecessore che Jovanovich ricorda di più è il grande Philip Langridge, anche alla Scala nel 2000 con Tate e soprattutto al Maggio nel 2002 con Ozawa, a tutt’oggi il “mio” Peter Grimes (per Pears e Vickers dal vivo non si è fatto in tempo). È ovvio che Jovanovich non canta con la tecnica italiana, perché per cantare Britten non serve, a meno che non si voglia sostenere che Pears era un belcantista attaccato al Garcia. Non tutti i suoni sono quindi torniti, immascherati e “belli”, direi anzi, per fortuna, quasi nessuno. Jovanovich, che è anche un ottimo attore, sa usare con molta intelligenza il registro di testa per risolvere gli acuti, per esempio in un’aria delle Pleiadi molto suggestiva, ma è capace anche di vigore e di una grande varietà di accenti. E l’allucinato monologo finale è, a mio modo di sentire, straordinariamente toccante. Poi, altra trovata di Carsen, l’ultima scena è di nuovo l’aula del coroner dove si giudica un nuovo Grimes: la storia si ripete. Purtroppo.

I commenti dei lettori