Milano, Teatro alla Scala: “L’amore dei tre re”

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2022/2023
“L’AMORE DEI TRE RE”
Poema tragico in tre atti di Sem Benelli
Musica di Italo Montemezzi
Archibaldo EVGENY STAVINSKY
Manfredo ROMAN BURDENKO
Avito GIORGIO BERRUGGI
Flaminio GIORGIO MISSERI
Un giovanetto ANDREA TANZIELLO
Un fanciullo CECILIA MENEGATTI
Fiora CHIARA ISOTTON
Ancella FAN ZHOU
Una giovinetta SILVIA SPRUZZOLA
Una vecchia DANIELA SALVO
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Àlex Ollé
Scene Alfons Flores
Costumi Lluc Castells
Luci Fan Z
Milano, Teatro alla Scala, 3 novembre 2023
Assente dal 1953 “L’amore dei tre re” di Italo Montemezzi ritorno sul palcoscenico scaligero per la chiusura della stagione 2023/23. Opera tra le più rappresentative della stagione italiana del primo Novecento e del suo tentativo di staccarsi dalla riproposizione degli stilemi veristi, il lavoro di Montemezzi è paradigmatico delle difficoltà e delle incertezze che il melodramma italiano stava vivendo solo in parte tenute in ombra dallo sfolgorare del genio pucciniano.
Sospesa fra tradizione e volontà d’innovazione l’opera di Montemezzi resta sempre a metà del guado. Da un lato non riesce a liberarsi dell’effettismo verista senza però riproporne la facilità melodica dall’altro guarda all’Europa e prende un po’ tutto gettandolo in un calderone dove il sinfonismo wagneriano, la preziosità della scrittura straussiana, un certo gusto arcaicizzante alle Debussy ovviamente non riescono ad amalgamarsi dando l’idea di un ecclettismo sempre un po’ raffazzonato.
Un merito bisogna riconoscerlo a Montemezzi ed è la capacità di usare le masse orchestrali. E’, infatti, il tessuto strumentale che sorregge l’intera partitura dandole una sua valenza. Una scrittura magari di maniera ma ben realizzata, con un certo preziosismo strumentale e una capacità di far cantare l’orchestra che gli va riconosciuta. Non sorprende al riguardo l’interesse per quest’opera di direttori quali Toscanini, De Sabata, Marinuzzi; essa è, infatti, prima di tutto un’opera per direttori. La qualità della scrittura orchestrale purtroppo non trova riscontro nel canto che procede con un declamato stentoreo e altisonante, ripetitivo e alquanto noioso in cui i pochi squarci di natura lirica mai riescono a fare veramente presa. Bisogna per altro dire che non aiuta il pessimo libretto di Sem Benelli, assurdo nella drammaturgia e affetto nella versificazione di un dannunzianesimo riciclato che spesso supera il punto di non ritorno del ridicolo.Resta comunque da constatare come all’ombra dei soliti noti la scena italiana di quegli anni appaia veramente modesta specie a confronto con la coeva vivacità dell’area germanica – ma anche di quella francese – dove la qualità complessiva appare incomparabilmente superiore e non è raro imbattersi in autentiche gemme dimenticate o quasi.
L’edizione scaligera ha il suo punto di forza nella direzione di Pinchas Steinberg subentrato a Michele Mariotti inizialmente previsto. Scelta quanto mai riuscita in quanto Steinberg ha fornito una prestazione semplicemente magistrale. Perfettamente a suo agio in questo tipo di scrittura sfrutta al massimo la qualità dell’orchestra scaligera offrendo una direzione pulitissima e scultorea, di grande smalto sonoro e capace di alternare con non comune sensibilità il turgore sinfonico di tanti momenti con la preziosità dei ripiegamenti cameristici ad esempio nell’intensità emotiva del bel coro funebre che apre il III atto. Una direzione che non perde mai vista il dato espressivo cercando di evidenziare il più possibile gli aspetti emotivi dell’opera sorreggendo nel miglior modo possibile le necessità del canto.
La compagnia di canto si scontra con le difficoltà di un’estetica quanto meno inattuale. Sostanzialmente tutti gli interpreti sono accomunati da un’innegabile qualità musicale ma anche dalla difficoltà di rendere il tono eroicamente enfatico e magniloquente che questa scrittura impone ma che è quanto di più antitetico ci sia al gusto odierno.
Evgeny Stavinsky (Archibaldo) debutta sul palcoscenico scaligero mostrando grande sicurezza. La parte del vecchio re Archibaldo è forse la più interessante dell’opera e il basso russo l’affronta con una voce di bel colore e assai ragguardevole per armonici e proiezione, qualche sporcatura sulle tessiture estreme non compromette la riuscita complessiva della prova. Quello che manca è però l’interprete così che una figura così potente resta solo scalfita in superficie.
Chiara Isotton (Fiora) canta splendidamente. La voce ampia, ricca, luminosa domina con sicurezza una tessitura assai impegnativa e supera con facilità la massa orchestrale. Nel suo caso siamo di fronte anche a un’artista sensibile che fraseggia con eleganza e cerca di scavare un personaggio meno stereotipato, cogliendone tratti di forza e ribellione. Resta l’impressione che sia tutto troppo “sano”, manca quella sensibilità malata e decadente che queste figure in equilibrio fra candore e lussuria dovrebbero emanare.
Giorgio Berrugi deve patteggiare maggiormente con l’impervia tessitura di Avito. Voce lirica, di bel colore e facile nello squillo risulta però un po’ leggera per la parte il che fa emergere un certo affaticamento. Manca in una voce così delicata quel senso del declamato retorico e altisonante di cui purtroppo la parte sembra nutrirsi. Roman Burdenko alle prese con un ruolo più lineare e meno profondo di quelli verdiani sfoggia al meglio una voce ricca e sonora e canta con la giusta nobiltà la parte forse più umana dell’opera. Molto bravo Giorgio Misseri nel breve ma importante ruolo di Flaminio. Come sempre sontuosa la prova del coro i cui solisti affrontano anche i ruoli di contorno.
La regia di Àlex Ollé è in perfetta linea con la musica risultando altrettanto noiosa del declamato di Montemezzi. Una scena spoglia, grigia, dominata solo da infinite catene che pendono dal soffitto – simbolo dell’oppressione di Flora – pochi elementi scenici, i soliti anonimi costumi tra cappotti di pelle e sottovesti. Tutto la componente decorativa dell’opera – magari datata ma cosa non è datato in questo lavoro – sacrificata in un grigiore senza fine. Per il regista l’opera è solo una storia di femminicidio, un caso di cronaca tra i tanti solo che se questo elemento pur presente è solo una delle componenti e risulta strettamente integrata con quella che a parere nostro e il dato essenziale. Lo scontro tra invaso e vinti, tra barbari germanici e italici. Lo scontro tra Archibaldo e Flora è lo scontro tra quei due mondi inconciliabili mentre Manfredo cerca – forse inutilmente – una sintesi  tra i due mondi. I nomi stessi – Flora quasi personificazione dell’Italia definita più volte serra o giardino e Avito simbolo delle patrie memorie – richiamano a quel valore. Siamo nel 1913 e il montare degli opposti nazionalismi era nell’aria, purtroppo di tutto questo non rimane traccia tra le ripetitive catene di Ollé. Foto Brescia & Amisano