Recensioni - Opera

A Roma lo straordinario Mefistofele di Mariotti

L’opera di Boito al Teatro Costanzi convince dal punto di vista musicale mentre l’allestimento suscita qualche perplessità

Opera velleitaria, sperimentale, a tratti discontinua ma non priva un suo fascino, Mefistofele di Arrigo Boito debuttò al teatro alla scala nel 1868 in una serata che viene ricordata come uno dei più colossali fiaschi della storia del teatro milanese, al punto che il compositore distrusse l’ipertrofica e forse troppo innovativa partitura -di cui però è rimasto il libretto- ed intraprese una revisione totale.
La seconda edizione debuttò felicemente a Bologna nel 1875 e godette di una discreta fortuna, rimanendo stabilmente in repertorio fino alla seconda metà del secolo scorso, per poi vedere rarefarsi il numero delle rappresentazioni. Singolare quindi il fatto che, dopo alcuni lustri in cui il titolo era pressoché scomparso dai teatri italiani, Mefistofele sia tornato in questa stagione con ben tre nuove produzioni: Cagliari, Venezia e Il Teatro dell’Opera di Roma che l’ha scelto come titolo inaugurale.

Motivi di interesse di questa nuova produzione erano la presenza sul podio di Michele Mariotti, direttore musicale del teatro ed una delle bacchette più interessanti del panorama internazionale e il regista Simon Stone qui al suo debutto su un palcoscenico italiano. Se il primo ha pienamente confermato tutte le aspettative, per il secondo si deve parlare di un esito abbastanza interlocutorio. Il regista australiano ha giocato la chiave della contemporaneità e del simbolismo, ambientando l’opera tratta dal Faust di Goethe in uno spazio bianco, astratto, progettato da Mel Page -autrice anche dei costumi sempre immacolati e neutri nella foggia- ravvivato dalle luci cangianti di James Farncombe che avevano il compito di connotare luoghi ed emozioni.

All'interno di questo non luogo la vicenda si dipana in quadri giustapposti in una prospettiva di atemporalità ed astrazione. Nel prologo le schiere angeliche sono disposte su tre file sovrapposte ad osservare la scena dall'esterno, quasi fossero degli scienziati che assistono ad un esperimento, mentre il coro delle voci bianche è in piedi, immobile, in pantaloncini e calzettoni. Unico accenno di movimento: Mefistofele che intona il suo monologo arrampicandosi su una scala a chiocciola, consulta la lista dei possibili candidati alla scommessa con l’Altissimo su un tablet, per poi ridiscendere nuovamente negli inferi. Una certa staticità caratterizza anche la scena della festa, ravvivata da un breve e non particolarmente incisivo intervento dei danzatori, mentre Mefistofele in costume da clown tenta maldestramente di disturbare un coro pressoché imbalsamato. Giunto nello studio di Faust il diavolo si presenta per tentarlo con sigaro in bocca, offrendogli del whisky e facendo sbucare due escort da sotto la scrivania. Buone e un po’ scontate intenzioni da demone tentatore (Bacco, tabacco e Venere) che però una volta accennate vengono abbandonate senza particolari sviluppi, lasciando i due come se discutessero del più e del meno.
In più occasioni i cantanti hanno dato infatti l'impressione di essere abbandonati a loro stessi, come ad esempio nella scena del corteggiamento di Margherita, ambientata in una piscina piena di palle colorate in cui i quattro interpreti coinvolti si limitano a tuffarsi e riemergere. L’atto del sabba si apre su una sorta di rito pagano in cui viene sgozzato un maiale e prosegue con Mefistofele, salito su un podio in tenuta da gerarca fascista, che arringa una folla, rigorosamente immobile, su una tribuna.
Nella scena del carcere Margherita è in una stanza in cui attraverso uno specchio seimiriflettente assistiamo ad una sorta di flashback di quanto lei sta raccontando, ovvero la passione con Faust, e l’accusa di avere ucciso la mamma e il bambino: scelta didascalica e ridondante che poco o nulla aggiunge, mentre il finale passa da un sabba classico ambientato in un’Arcadia che ricorda un centro benessere kitsch in stile Cesar’s Palace in cui gli eroi di Troia cadono uccisi da militari in tuta mimetica (di cui fa parte anche Faust) ad un epilogo in un’asettica casa di riposo.
In sostanza una regia tutt'altro che banale, basata su idee a tratti anche interessanti ma che suonano troppo spesso giustapposte, senza un reale collegamento con la musica ed in cui il “konzept” spesso penalizza la teatralità.

Teatralità che al contrario sgorga copiosamente dal golfo mistico. Mariotti infatti dirige un Mefistofele magnifico, dal suono pieno e turgido -ottoni e percussioni sono disposti sotto la platea- ma attentissimo alle dinamiche, mai enfatico, nonostante la scrittura musicale a volte possa portare a sconfinare in quest'ambito, e di grande tensione drammatica.
Straordinaria l'intesa con il coro diretto da Ciro Visco e il coro delle voci bianche preparato da Alberto De Sanctis, al punto che proprio al termine delle scene corali sono partiti gli applausi più convinti.

John Relyea delinea un Mefistofele spavaldo, beffardo e guascone. La voce è imponente, timbratissima, impeccabile nell’acuto. Un demonio credibile e carismatico, anche se una regia più attenta e puntuale nella costruzione del personaggio lo avrebbe reso ancora più icastico. Joshua Guerriero è un Faust dalla solida linea di canto anche se il timbro appare un po’scuro per il ruolo ed il fraseggio non è ricchissimo. La sua è comunque un'interpretazione in crescendo che gli è valsa un meritato consenso. A Maria Agresta è stato tributato l'unico applauso a scena aperta della serata al termine dell'aria “L'altra notte in fondo al mare”. Il soprano si è distinto nel doppio ruolo di Margherita ed Elena per la bellezza del timbro e la raffinatezza del fraseggio. Vitale ed appassionata nei duetti con Faust, intensa e dolente nella scena del carcere. L'ottimo Wagner di Marco Miglietta ha convinto per la luminosità del timbro come rimarchevoli sono state le prove di Leonardo Trinciarelli (Nereo) e Sofia Koberidze (Marta e Pantalis).
Al termine consensi unanimi per tutti con picchi di entusiasmo per Mariotti da parte di un Teatro Costanzi non così pieno come la proposta avrebbe meritato.