Recensioni - Opera

Bohème a Innsbruck: il tempo fugge per Mimì

Non pienamente a fuoco il nuovo allestimento di Anna Bernreitner. A fasi alterne la compagnia di canto.

In vista del prossimo centenario pucciniano anche il Tiroler Landestheater di Innsbruck mette in scena una nuova edizione di La Bohème con la regia di Anna Bernreitner e scene e costumi di Hannah Oellinger e Manfred Rainer.

La regista opta per un’attualizzazione spinta della vicenda, facendo iniziare il tutto in silenzio, nella sala di aspetto di una clinica, ove Mimì attende l’esito delle proprie analisi. Una volta ricevute, con tanto di lastra ai polmoni ben visibile, il verdetto è chiaro e la “povera piccina” prorompe in un pianto disperato. In alto, ben visibili, due grandi orologi, uno dei quali, alla rivelazione della malattia, inizia a correre veloce, mentre l’altro continua il suo corso normale. Questi orologi saranno presenti per tutta la rappresentazione e solo l’incontro d’amore del primo atto sarà in grado di fermare temporaneamente il tempo, che inesorabile e veloce sfugge dalla vita di Mimì.

Solo adesso inizia l’opera vera e propria, con i quattro bohemiens che altro non sono che un complessino giovanile intento alle prove in una colorata e non proprio povera soffitta. Costumi variopinti, paccottiglia varia, qualche trovata simpatica. Il “lume” di Mimì è una sigaretta, il caminetto una stufetta elettrica, si litiga su chi debba portare fuori la spazzatura. Molte cose già viste invero, ma la pecca maggiore sta nel fatto che la regista non riesce a dirigere gli attori-cantanti verso la credibilità: tutti sono volonterosi, ma l’impaccio è evidente, la recitazione convenzionale e poco efficace.

Il secondo atto è risolto con un coro interamente vestito di nero che va e viene in barba a qualsiasi logica, una scena vuota, qualche tavolino e un palazzo stilizzato che cala nella seconda parte. Anche qui Puccini non perdona l’approssimazione e poco o niente funziona, in un alternarsi fra tentativi di leggere in modo innovativo la drammaturgia e scontati ritorni al dettato del libretto. Alla fine prevale la confusione.

Nel finale dell’atto Mimì, oltre che essere inseguita dall’orologio che corre alla chetichella notte e giorno, viene anche oppressa da un mimo completamente vestito di rosa, con tanto di maschera da medico veneziano della commedia dell’arte. Una prefigurazione della morte imminente che non abbandonerà più Mimì fino al noto epilogo.

Nel terzo e quarto quadro torna essenzialmente il vuoto: un ponteggio da pittore degno di Cavaradossi, un albero e nel finale un materasso portato in scena come una bara. Immancabile e onnipresente la “morte rosa” che attende di portarsi via Mimì. Alcune idee buone ci sono, come il duetto “Oh Mimì tu più non torni” immaginato come la prova di un concerto, una specie di sogno di gloria da cui Rodolfo e Marcello vengono bruscamente risvegliati e riportati alla dura realtà. L’impostazione interpretativa è più semplice e convenzionale, quasi l’inventiva registica scemasse nel finale; questo facilita gli interpreti, togliendoli d’impaccio e rendendo il tutto più efficace.

Nel finale tutti se ne vanno, Mimì muore, l’orologio si ferma e il suo cadavere viene trascinato via dalla “morte rosa”. In scena resta disperato e solo Rodolfo.

Nel complesso bisogna riconoscere alla regista una certa coerenza e qualche buono spunto, ma il tutto annega in una reiterata confusione. Lo spettacolo non decolla perché non si è riusciti a preparare o convincere adeguatamente gli interpreti, che risultano quasi sempre impacciati e non a loro agio.

Il Rodolfo di Attilio Glaser si difende bene vocalmente, forte di una bella voce armonica e dal timbro accattivante. Da il meglio di sé negli ultimi due atti, ma non riesce ad essere credibile nelle scene più scopertamente giovanili.

Al suo fianco Marie Smolka è una Mimì corretta, ma spesso coperta dall’orchestra, fin troppo tragica e con poche sfaccettature. Anche la Musetta di Annina Wachter non convince.

Generico il Marcello di Nikita Voronchenko, poco incisivo come personaggio e spesso coperto dall’orchestra. Jacob Phillips è invece dotato di voce ampia e timbrata. Riesce a imporsi senza problemi sull’orchestra e ci regala un bel personaggio, a fuoco sia vocalmente che scenicamente. Anche Oliver Sailer convince vocalmente con una “Vecchia Zimarra” ben eseguita, mentre il personaggio resta al di sotto delle richieste della regia.

Gerrit Priessnitz dirige con appropriati accenti sinfonici pur senza dare una lettura particolarmente originale. Mal calibrato il rapporto buca palcoscenico, con il suono orchestrale che spesso tende a sovrastare i cantanti.

Buon successo nel finale.

Raffaello Malesci (Domenica 10 Dicembre 2023)