L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

I Dioscuri del verismo

di Luca Fialdini

Torna alla Scala l’allestimento di Cavalleria e Pagliacci firmato da Mario Martone nel 2011.

MILANO 28 aprile 2024 – Dopo il debutto nel 2011 e un primo ritorno nel 2015, al Piermarini tornano i Dioscuri dell’opera italiana nell’ideazione scenica di Mario Martone; un allestimento assai felice, ripreso con gusto da Federica Stefani, che tra i molti pregi ha quello di mettere in scena due titoli ferocemente veristi senza polverosità o feticci oleografici restituendone però lo spirito intatto.

All’epoca della prima ripresa si è già scritto della componente visiva del dittico, ma vale comunque la pena di spendere ancora qualche parola sullo spettacolo di Martone. Il risultato più pregevole lo si raggiunge senz’altro Cavalleria rusticana e per un motivo preciso: la sua natura non è prettamente operistica, intesa come importanza dell’apparato visivo e del gesto scenico nei confronti della drammaturgia, piuttosto si può parlare di una forma ibrida che si muove sulla sottilissima linea di confine tra opera, cantata scenica e sacra rappresentazione. L’allestimento va in questa direzione proponendo una gestione dell’insieme – per l’appunto – quasi da cantata, con il coro sempre presente e una scena nuda con delle sedie e, sul fondo, un altare che arriva e se ne va nel tempo di una messa; si aggiunge la massa del coro con costumi da Sicilia 1880 e basta davvero questo per ricreare Cavalleria: il patetismo dell’orchestra, l’intensità di una cantata, il gesto scenico stilizzato di una sacra rappresentazione, non serve nient’altro. Martone ha eliminato tutto quello che non è necessario per arrivare al cuore di una drammaturgia che non ha bisogno della scena; in questo modo l’opera prima di Pietro Mascagni è decisamente meno stantia, i problemi di collegamento tra un numero e l’altro sono molto meno accentuati e soprattutto guadagna in solidità.

L’idea di Pagliacci in una periferia degradata è forse meno seducente e si appoggia un po’ al “già visto”, tuttavia i due praticabili che incorniciano l’orchestra conferiscono maggior grazia all’insieme e in ogni caso sono del tutto coerenti con l’impostazione di Leoncavallo, che a più riprese gioca con la quarta parete, sin dal prologo assolutamente metafisico. È comunque una realizzazione scenica coinvolgente e l’intelligente gestione dello spazio è una nota di pregio. Efficaci e suggestive le scene di Sergio Tramonti, con un bell’uso di pieni e vuoti, in perfetto equilibrio con i costumi – ora sobrissimi, ora completamente folli – di Ursula Patzak e le raffinate luci di Pasquale Mari (sarà un’osservazione banale, ma quel tratto crepuscolare in Cavalleria è meraviglioso).

Sul versante musicale fa storcere un po’ il naso in Pagliacci la scelta di incorporare ancora una volta quei tagli (anche nel duetto Nedda/Silvio) e quelle varianti testuali che ci si augurava di aver superato da tempo: almeno dalla Scala ci si aspetterebbe un’attenzione filologica per quel che riguarda l’opera italiana. Buona la direzione di Giampaolo Bisanti e adeguata ai titoli; non ci sono particolari guizzi ma si apprezza il fatto che abbia scelto un’idea precisa e l’abbia portata fino in fondo, mettendo l’accento sul dramma, sul sangue. Si può discutere su quanto la sua direzione sia allineata con la regia, probabilmente lo spettacolo richiedeva qualcosa di più essenziale e in effetti in Pagliacci si poteva trovare qualche punto di alleggerimento, ma in Cavalleria che alleggerimento si può chiedere in una partitura che è tutto un raddoppio? A eccezione di un paio di intuizioni felici – i ritmi sovrapposti del coro d’inizio e i violini divisi a tre in Mamma, quel vino è generoso – in questa partitura Mascagni è solo melodia che non conosce sviluppo, il raddoppio della melodia è una vera ragion d’essere (arrivando a momenti particolarmente sgraziati quando gli ottoni raddoppiano gli archi nei passi veloci) e i piatti si usano per mangiare; quel che ha diretto Bisanti è quel che avviene in partitura. Si può sempre fare di meglio e, come già detto, non ci sono nuove idee o lavorazioni particolari, ma il risultato è più che apprezzabile e sarebbe interessante sapere quanto tempo ha avuto il direttore per lavorarci sopra. Pagliacci è probabilmente più nelle sue corde e in effetti il risultato è superiore a quello di Cavalleria: la partitura ben scritta ovviamente aiuta, ma c’è più cura verso il dettaglio e magari anche all’integrazione con la scena, fino al duetto fra Nedda e l’amante Silvio che è stato uno dei momenti più riusciti dell’intero dittico.

Per parte sua, l’Orchestra del Teatro alla Scala segue bene il gesto di Bisanti e si adegua alla richiesta di sonorità importanti e sanguigne, raggiunte con una bella compattezza, però non manca la cura sulle cesellature timbriche come quella piccola melodia raddoppiata tra flauto e corno o il quartetto di clarinetti e fagotti quando Alfio incontra Santuzza in Cavalleria, o ancora gli intarsi cameristici nel duetto del primo atto di Pagliacci e le raffinatezze di gusto settecentesco nella scena della commedia. Superlativo il Coro del Teatro alla Scala preparato da Alberto Malazzi, da cui peraltro provengono la voce che grida «hanno ammazzato compare Turiddu» e i due contadini di Pagliacci: convincente e di buona presenza scenica in Mascagni, strepitoso in Leoncavallo; a proposito di quest’ultimo, positiva la prova degli acrobati e molto ben inserita nel contesto scenico a cui forniscono un apporto non marginale.

Il cast vocale è ottimo e risulta ben centrato per entrambi i titoli, a cominciare dall’inossidabile Elena Zilio che nelle vesti di mamma Lucia fornisce una prova di grande classe. Ottima Francesca Di Sauro che conferisce alla sua Lola un insolito spessore, infondendole uno spiccato carattere tratteggiato senza caricature e donandole una splendida vocalità.

Doppio ruolo per Amartuvshin Enkhbat, prima Alfio e poi Tonio, caratterizzati dalla sua ormai nota vocalità dal timbro scuro, intensa, straripante ma ben controllata. Forse si potrebbe avere scavo maggiore nelle sfumature e nelle mezze voci (in particolare per Tonio), ma sulla vocalità non si può dir nulla se non che si è stati testimoni di una prova maiuscola; la componente esclusivamente attoriale ha ancora dei margini di miglioramento perché, trattandosi di due personaggi di temperamento acceso per non dire violento, Enkhbat in certi passi risulta un po’ freddo.

Brian Jagde gestisce con intelligenza il personaggio di Turiddu e si può ascoltare una serenata dietro le quinte che non viene cantata in modo eroico. Il timbro limpido e l’intonazione solidissima valorizzano l’omogeneità fra le tessiture e forniscono un quid in più nei begli acuti, ma su tutto regna una spiccata musicalità che rende l’interpretazione molto interessante.

Dispiace davvero di non aver potuto ascoltare Elīna Garanča, prontamente sostituita da Saioa Hernández. Soprano di polso e dalla voce importante, Hernández dà il meglio di sé negli episodi più concitati e nella preghiera, con un «a te la mala Pasqua» di rara efficacia; c’è qualche debolezza nei centri, non sempre ben appoggiati, ma nel complesso Santuzza si è meritata i lunghi applausi.

Equilibrato il Peppe di Jinxu Xiahou, portato sulla scena con una certa grazia e si fa notare soprattutto come Arlecchino nella commedia. Seppur artista già noto e in parti anche di ben maggior evidenza, Mattia Olivieri è la vera rivelazione della serata: conserva leggerezza nella linea vocale, curatissimo nei colori e nelle mezze voci, insomma un Silvio di lusso come raramente capita di incontrare e che si spera di ascoltare su queste tavole in ruoli più corposi.

Benissimo Fabio Sartori nel ruolo del capocomico Canio. Al netto di alcune tessere non proprio allineate (ad esempio il fraseggio potrebbe essere più attento), Sartori è veramente nella sua parte con un’interpretazione asciutta e per questo vincente, riuscendo a rendere tutto il dolore, il dramma e le ombre di Canio con pochi, efficacissimi tratti.

Irina Lungu nelle vesti di Nedda si rende protagonista di una lettura sottile del personaggio, con i suoi chiaroscuri a cui fa da contrasto la vaga allure da soubrette, la cura scrupolosa nel fraseggio. Il taglio psicologico trova conferma nella vocalità di Lungu, meno pesante della Nedda di tradizione però coerente con questo tipo di ideazione del personaggio.

Molti e calorosi applausi accompagnano la chiusura del sipario su un dittico verista che in questi giorni ha fatto discutere e sicuramente continuerà a farlo fino alla conclusione delle recite, resta il fatto che si tratta di una produzione meritevole d’interesse e la ripresa non è affatto di routine, anzi, dimostra notevoli punti di forza.

 


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