Palermo, Teatro Massimo: “Rigoletto”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2013
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti, libretto di Francesco Maria Piave
dal dramma Le roi s’amuse di Victor Hugo
Musica di Giuseppe Verdi
Il duca di Mantova MASSIMILIANO PISAPIA
Rigoletto DIMITRI PLATANIAS
Gilda DESIRÉE RANCATORE
Sparafucile ANDREA MASTRONI
Maddalena CHIARA FRACASSO
Giovanna PATRIZIA GENTILE
Il conte di Monterone NICOLÒ CERIANI
Marullo PAOLO ORECCHIA
Matteo Borsa ALDO ORSOLINI
Il conte di Ceprano CLAUDIO LEVANTINO
La contessa di Ceprano PINUCCIA PASSARELLO
Un usciere di corte VINCENZO RASO
Un paggio della duchessa ANITA VENTURI
Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Direttore Giuseppe Finzi
Maestro del Coro Piero Monti
Regia Henning Brockhaus
Scene Alessandro Camera
Costumi Patricia Toffolutti
Movimenti coreografici Emma Scialfa
Luci Roberto Venturi
Assistente alla regia Valentina Escobar
Collaboratore alle scene Andrea Gregori
Nuovo allestimento del Teatro Massimo
Palermo, 3 maggio 2013

Considerando quanto accaduto a marzo e aprile con Nabucco e Aida, nessun accenno di sorpresa si è provato nel ritrovare in questo Rigoletto la stessa struttura ad anfiteatro che aveva caratterizzato le due opere. Questo fattore di continuità, di ri-creazione (come già detto) di una ‘trilogia verdiana’, ha costituito la base per instaurare una sorta di leitmotiv scenico, nel tentativo forse di equilibrare il ben più forte e inossidabile legame che regge la tetralogia wagneriana. È allo scenografo Alessandro Camera che viene affidato il delicato incarico di rappresentare tale continuità, sposandosi nei tre allestimenti con regie e cast totalmente differenti, ma soprattutto con partiture distanti tra loro, per quanto composte dal medesimo musicista. Al raggiungimento del suddetto obiettivo contribuisce il secondo garante di tale continuità, il lighting designer Roberto Venturi, all’altezza di un compito troppo spesso sottovalutato, quello di definire attraverso l’utilizzo di luci e ombre la drammaturgia dell’opera, senza però perdere vista la chiarezza della narrazione e, di conseguenza, il contatto con il pubblico.
A modulare queste due componenti e a far sì che funzionino bene è indispensabile l’intervento di un pensiero registico forte e strutturato, senza il quale non ha nemmeno senso parlare di teatro musicale. Accade così che un impianto scenico sulla carta più adatto alla stilizzazione arcaica di opere ambientate nell’antico Egitto o in Babilonia, paradossalmente risulti più funzionale in un lavoro come Rigoletto, realizzando quell’ambita continuità che di fatto c’è, ma che diventa discretamente invisibile, amalgamandosi – come è giusto che sia – con gli altri elementi dello spettacolo. La motivazione è presto detta: quanto mancava nella regia delle precedenti due opere trova qui un doveroso ribaltamento grazie all’intervento di Henning Brockhaus, discutibile quanto si vuole, ma senza dubbio portatore di una concezione che possa essere definita tale.
Che Brockhaus conosca a fondo la partitura verdiana è evidente in ogni singolo momento. A partire già dalla concezione generale: “Anche se ‘Rigoletto’ si svolge alla corte di Mantova, l’aspetto storico non è la sostanza dell’opera. L’essenza dello spettacolo risiede nell’ossessiva riflessione che Rigoletto fa, nel corso di tutta la vicenda, sulla maledizione di cui è stato oggetto, e nella successione di scelte sbagliate che lo condurranno al suo tragico errore”. Niente di più vero. Con Rigoletto Verdi crea un dramma fortemente scorretto dal punto di vista storico, ma tutto centrato sull’effetto teatrale, estremamente ossessivo e ossessionante, sia nella musica (il riferimento al ‘tema della maledizione’ è d’obbligo) sia nella drammaturgia. Da questa premessa Brockhaus giunge a individuare con facilità il nucleo dell’opera: la scissione che il protagonista realizza tra le due facce della sua personalità, quella crudele del buffone di corte e quella borghese di padre rispettabile. Di conseguenza l’arena creata da Camera si trasforma in un contenitore simbolico e circense, dominato interamente dal rosso, che reca con sé i segni visibili di una distruzione e che racconta lo stato di disfacimento del Duca e di Rigoletto. Sospesa al di sopra di esso vi è la camera di Gilda, l’utopia che il padre cerca di preservare, ma che egli finisce per distruggere, mosso da un sentimento che per Brockhaus è frutto di puro egoismo. Nessuno di questi personaggi è veramente capace di provare amore e nessuno si salva dalla rovina. Contro ogni concezione vittimistica, si è voluto eliminare ogni cliché, sottolineando come sia Rigoletto stesso, con le sue scelte, a causare la propria maledizione. L’eliminazione della gobba rimuove ogni segno esteriore di deformità e lo trasferisce ad un nano con gorgiera, figura straniante che insieme a due acrobati accompagna sempre il protagonista. Eppure la deformità è ben più di un semplice cliché: essa fa parte della sostanza di Rigoletto, ne motiva le azioni pregresse, oltre ad essere frequentemente citata nel libretto. Le motivazioni di questa scelta sono, quindi, meno condivisibili, sebbene la presenza del nano contribuisca ad accrescere l’atmosfera di minacciosa inquietudine del dramma.
Al di fuori della tradizione in senso stretto si pone pure Desirée Rancatore, intenzionata a dipingere una Gilda più sensuale, meno bamboleggiante e ingenua. La cantante ci riesce e fa piacere osservare come la sua interpretazione sia davvero matura e consapevole, proprio in relazione ad un personaggio che di maturo ha ben poco. Sin dall’inizio la Rancatore armeggia con abiti provocanti, dimostrando come Gilda non sia quell’angelo sceso dal cielo che comunemente si crede (anche questo in piena corrispondenza con la vicenda). Che questa sensualità trovi riscontro sul piano vocale è, però, più difficile. Il soprano palermitano compie un intervento di sfrondamento della linea del canto, evitando di aggiungere ulteriori ornamenti, ma conservando la cifra stilistica che le è propria, caratterizzata da agilità cristalline, voce incorporea, sovracuti nitidi e ductus cinguettante. E tutto sommato ci sembra giusto che al di là di un’interpretazione più o meno tradizionale la condotta vocale resti uguale e aderente alla partitura verdiana, restituendo in ogni punto (ma soprattutto in “Caro nome” e “Tutte le feste al tempio”) quel canto spezzato che già di per sé è connotazione della colpa della protagonista. Qui la Rancatore è al contrario scenicamente scrupolosa e assolutamente incolpevole, se non fosse per l’asprezza timbrica di alcuni passaggi che con il passare del tempo sembra accentuarsi. Ma al pubblico del Massimo importa poco e come sempre la sua prova è un trionfo. Alle ovazioni riservate alla Rancatore hanno fatto da timido contraltare alcune contestazioni rivolte al Duca di Massimiliano Pisapia. A dire il vero contestazioni troppo tiepide rispetto a quello che si è ascoltato: un Duca superficiale (e fin qui potrebbe starci), ma vocalmente opaco, privo di raffinatezza, con disomogeneità nella pronuncia delle vocali e vibrato poco opportuno. Come molti tenori Pisapia ha il brutto vizio di riservare le cartucce migliori ai pezzi più celebri, quelli in cui ogni sbaglio viene pagato a caro prezzo. Va quindi abbastanza bene in “La donna è mobile” e nella Scena e Aria del II Atto (“Parmi veder le lagrime”), ma per il resto non si può fare a meno di constatare la mancanza di appoggio e di qualsiasi cura nella modulazione della voce, quasi che il cantante fosse messo lì di malavoglia.
Grande successo di pubblico per il Rigoletto di Dimitri Platanias, baritono greco specializzato nel ruolo. La voce è sonora e arriva all’ascoltatore con intensità, senza alcun tipo di forzatura. Il respiro ampio del fraseggio si adatta ai momenti più lirici della scrittura, soprattutto nel duetto con Gilda, quando Brockhaus lo trasforma in un convenzionale Germont, con tanto di cilindro e bastone al seguito (perfetto replicante del Monterone del primo Atto). Durante il preludio, Platanias “veste la giubba e la faccia infarina”, preparandosi a quell’orgia di cupo divertimento che occupa la prima parte del primo Atto. Ancor più ci ricorda Canio nel “Pari siamo”, modellando un declamato sfumato e generalmente attento alle variazioni psicologiche, ma in altre occasioni privo di mordente e troppo uniforme, soprattutto in rapporto alle infinite sfaccettature di Rigoletto. Nel complesso, però, lascia il segno la sua lettura del personaggio in chiave di feroce solitudine, il cui merito va forse più al regista e all’efficace bacchetta di Giuseppe Finzi, Resident Conductor della San Francisco Opera. Il direttore conferisce risalto ai momenti più tenebrosi, risolvendoli in trenodie di effetto macabro ed emotivamente coinvolgenti. Uno di questi è l’incontro fra Rigoletto e Sparafucile (I Atto). Qui tutti sono davvero sopra le righe, a partire da Brockhaus (che fa muovere entrambi i personaggi allo stesso modo, facendogli compiere gli stessi gesti e usando come espediente lo spostamento di sedie ammassate per ribadire il rispecchiamento fra il protagonista e il sicario) sino allo strepitoso Andrea Mastroni nel ruolo del borgognone. È lui la rivelazione di questo spettacolo: basso profondo di timbro affascinante, sempre intonato e con note ben proiettate, il tutto condito da un’interpretazione sopraffina, nervosa e lacerata come mai avevamo visto (proprio, appunto, come dovrebbe essere Rigoletto). Non stupisce che musicalmente le parti migliori siano proprio questo duetto e il terzetto del terzo Atto. Anche il quartetto non va male, trovando un’ulteriore spinta nel contributo di Chiara Fracasso che (s)veste i panni di Maddalena e che recita con convinzione, malgrado qualche intemperanza (ma il tenore sembra esserne soddisfatto, allorché esclama “Eh, che fracasso!”, creando l’inevitabile gioco di parole).
Il Coro del Teatro Massimo – qui presente nella sola sezione maschile – ha saputo rendere con correttezza i momenti a lui affidati, soprattutto alla fine del primo Atto (“Zitti, zitti moviamo a vendetta”) e all’inizio del secondo (prima del duetto fra Rigoletto e Gilda), muovendosi sul palco con disinvoltura e mostrando come in presenza di un regista degno di tale nome si riesca a superare quell’inopportuna fissità che talvolta pesa anche in termini di resa musicale. Nel vortice della perdizione rimangono coinvolti anche i rimanenti personaggi, come la Giovanna di Patrizia Gentile (che non si fa scrupolo di flirtare con il Duca, caricando il timbro di quella dose di corposità che nel complesso risulta piacevole) e il Monterone di Nicolò Ceriani (incisivo al punto giusto nel primo Atto – infagottato in quegli abiti borghesi, poi ripresi da Rigoletto, che ne rivelano un insospettato fondo di convenzionalità – un po’ meno nel secondo). Ai limiti del fastidio le battute di Pinuccia Passarello (Contessa di Ceprano) affiancata da un consorte (Claudio Levantino, nel ruolo del Conte di Ceprano) privo di nota, ma ancora in via di affinamento. Fugaci, ma adeguati gli interventi di Vincenzo Raso (un usciere di corte) e Anita Venturi (un paggio della duchessa). Completavano il cast i bravi Paolo Orecchia e Aldo Orsolini, rispettivamente Marullo e Matteo Borsa, scenicamente all’altezza e decisamente in parte. Come prevedibile, l’applauso più fragoroso è stato riservato alla Rancatore e a “Caro nome”, seguita a ruota da “Cortigiani vil razza dannata”. Applausi, benché timidi, anche a “La donna è mobile” (anche se in questo caso ne avremmo fatto volentieri a meno, con l’utopica speranza che almeno una volta non venga spezzato il flusso musicale e drammaturgico voluto da Verdi). Come bis baritono e soprano hanno replicato “Sì vendetta, tremenda vendetta”, venendo incontro alle fragorose richieste del pubblico che riempiva la sala in tutti gli ordini e nella platea.  Foto Corrado Lannino/Studio Camera