Palermo, Teatro Massimo: “La Traviata”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2013
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti, libretto di Francesco Maria Piave
dal dramma La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio
Musica di Giuseppe Verdi  
Violetta Valéry  DESIRÉE RANCATORE
Flora Bervoix PATRIZIA GENTILE
Annina VALERIA TORNATORE
Alfredo Germont STEFANO SECCO
Giorgio Germont VINCENZO TAORMINA
Gastone BRUNO LAZZARETTI
Il barone Douphol GIOVANNI BELLAVIA
Il marchese D’Obigny ITALO PROFERISCE
Il dottor Grenvil MANRICO SIGNORINI
Giuseppe MARCO PALMERI
Un domestico/Un commissionario RICCARDO SCHIRÒ
Primi ballerini MONICA PIAZZA, GIUSEPPE BONANNO
Orchestra, Coro e Corpo di ballo del Teatro Massimo
Direttore Matteo Beltrami
Maestro del Coro Piero Monti
Regia e costumi Laurent Pelly
Regia ripresa da Anna Maria Bruzzese
Scene Chantal Thomas
Coreografia ripresa da Giancarlo Stiscia
Luci Amerigo Anfossi  
Allestimento del Teatro Regio di Torino in coproduzione col Santa Fe Opera Festival
Palermo, 21 novembre 2013

Blocchi squadrati, giocati tra sfumature nere e grigie, incombono sul palcoscenico del Teatro Massimo. Sarebbe il caso di ribattezzarla ‘La traviata dei sepolcri’ questa di Laurent Pelly, andata più volte in scena al Teatro Regio di Torino e ora approdata a Palermo (nel riadattamento di Anna Maria Bruzzese). La costruzione a flashback consente subito di identificare le lapidi del cimitero di Montmartre, una delle quali è destinata a madamigella Valéry. Non potrebbe esservi contrasto più forte fra Preludio e inizio del dramma, allorché la protagonista entra in scena, lanciando gridolini degni delle peggiori soubrettes e indossando un abito in seta color fucsia, mentre intorno impazza la festa. Ma sono sempre le lapidi a fare da sfondo a questo primo atto, così come al resto dell’opera. Di conseguenza tutta la vicenda è fatalmente percorsa da un senso di morte, da una malattia che è vissuta in ogni momento come condanna insostenibile. Violetta non si rassegna a morire: intende vivere la sua giovinezza, si aggrappa tenacemente a questo desiderio, non importa se folleggiando da prostituta, o fra i palpiti di un amore sincero. Sforzi inutili, lo sappiamo. Ma lei, che più di tutti dovrebbe esserne consapevole, sembra quasi far finta di niente, come se l’indifferenza potesse sconfiggere quel destino che la insegue senza sosta, in una folle corsa contro il tempo. Anche quando non può fare a meno di constatare l’atroce realtà, il suo ultimo grido è un inno alla vita, alla rinascita, al vigore. Nessuno, però, lo accoglie: diversamente da quanto accade in Verdi, qui Violetta muore da sola, abbandonata da “quanti ha cari al mondo” che pensano bene di svignarsela al momento giusto. Nonostante la conclamata fedeltà al melodramma verdiano, la regia di Pelly si distanzia in più occasioni dal pensiero dell’autore. E non stiamo qui a parlare della lettura semplicistica della protagonista, trasformata in mera sgualdrina di bordello, o ancora dei movimenti insensati in cui gli interpreti si destreggiavano, forse per sopperire alla desolante fissità scenica, ma soprattutto a quegli interventi che hanno finito per modificare la drammaturgia originaria: l’improvvisa uscita dei personaggi alla fine dell’opera, il cantabile del secondo atto durante improbabili schermaglie amorose, la decisione di collocare l’intervallo fra prima e seconda parte del secondo atto, spezzando così la continuità voluta dal compositore. A tutto questo si sono aggiunti alcuni tagli nella partitura, soprattutto nelle seconde strofe delle arie, che ormai consideravamo lasciati alle spalle e che invece sembrano duri a scomparire.
Anche la direzione di Matteo Beltrami ha deluso sotto alcuni punti di vista. Già nel Preludio al primo atto la scelta dei tempi sembrava sfocata e lontana da quel coinvolgimento che subito ci aspetteremmo, benché subito abbandonata a favore di tempi incalzanti, perfettamente adatti all’atmosfera della scena, ma con un dialogo poco equilibrato fra orchestra e i cantanti. Beltrami si sforza di creare un tessuto di riferimento per coro e solisti, ma spesso con l’orchestra va a creare qualche fraintendimento di tipo ritmico, soprattutto durante la festa a casa di Flora, anche a causa di un coro disattento e talvolta fuori tempo. Per fortuna non è sempre così, e momenti come “Amami, Alfredo”, realizzati con una densità tale da trasformarsi in veri pugni nello stomaco, dimostrano la concertazione attenta del direttore, evidenziando un buon dominio dei momenti cruciali della partitura. Di conseguenza, per la concentrazione emotiva che richiede, il terzo atto è risultato il più riuscito sotto ogni punto di vista, sia sul versante scenico che su quello musicale. Qui si scioglie la minaccia funerea che attraversa tutto il dramma e che, per quanto ci riguarda, si è presentata come uno dei pochi punti a favore di una regia alquanto discutibile. Ad eccezione dei due protagonisti, ogni figura sembra portatrice di questo messaggio funesto: dai partecipanti alle due feste, ai danzatori del baccanale, alle zingarelle e ai ‘mattadori’, fino all’Annina di Valeria Tornatore, la più inquietante fra tutti. Ma colui che concretamente porta l’annunzio funebre, colui che comunica a Violetta la fine di ogni speranza, è Giorgio Germont, interpretato dal baritono palermitano Vincenzo Taormina. Più simile allo spettro di Banco di memoria shakespeariana, Taormina associa all’imponenza fisica un timbro gradevole, ma ancora carente di maturità e un po’ impreciso in taluni punti, soprattutto in chiusura di frasi melodiche. Corretto nell’unica romanza che gli viene affidata (“Di Provenza il mar, il suol”), affronta i movimenti con disinvoltura e maggior agio rispetto agli altri personaggi, conferendo sufficiente credibilità al ruolo.
Quanto gli eccessivi movimenti possano risultare deleteri e di ostacolo a una buona riuscita interpretativa si può riscontrare nel caso di Alfredo, qui interpretato da Stefano Secco. Dopo un avvio abbastanza persuasivo, il tenore comincia ad accusare qualche difficoltà già nel duetto del primo atto (“Un dì, felice, eterea”) per poi arrancare nel secondo, con sforzi pressoché sovrumani e contorcimenti facciali nella resa dei passaggi più spinosi. Sia l’emissione che la tenuta di fiato sembrano essere sul limite della correttezza, e forse proprio perché preso dal turbinio degli spostamenti, in un’occasione pasticcia pure con il testo, omettendo alcune parole del libretto. Nel secondo atto si evidenzia la medesima discontinuità, dissimulata con un po’ di fatica nella difficile cabaletta (“O mio rimorso! O infamia”), ma che riaffiora nel corso della feroce invettiva contro Violetta e nel più tradizionale concertato di chiusura. Sullo sfondo dell’orrenda parete muschiata che simboleggia il rifugio d’amore dei due protagonisti (ma a questo punto era meglio mantenere i semplici parallelepipedi) Alfredo recupera una dimensione più spigliata rispetto a quello che solitamente avviene, e nel confronto con il padre mantiene un atteggiamento autenticamente semplice e privo di pretese. In questo si intravede il tentativo di Pelly di sfrondare l’opera della sua sovrastruttura, restituendola ad una dimensione più pura e immediata, che però contrariamente agli intenti in molti casi finisce per appesantirla ulteriormente. È quanto avviene nella seconda parte del secondo atto, dove le scene di Chantal Thomas, sempre strutturate sul meccanismo delle lapidi con l’aggiunta di un grande lampadario, creano un gioco di superfici lucide di per sé insufficienti a formare la struttura portante di un impianto registico sostanzialmente assente.
Volutamente abbiamo lasciato alla fine la protagonista, Desirée Rancatore, al suo debutto italiano nel ruolo di Violetta. Rispetto alle ovazioni che solitamente Palermo riserva alla sua cantante, in questa prima il pubblico ci è sembrato più freddo e meno entusiasta, pur tributando un successo pieno alla performance canora della Rancatore. Successo meritato, seppur con qualche riserva. Se infatti nel primo atto le capacità funamboliche del soprano palermitano risuonano in tutto il loro splendore, sia nel duetto con Alfredo (uno dei migliori mai sentiti, sul versante femminile) sia nella cabaletta di fine atto (“Sempre libera degg’io”), la mancanza di certi dettagli emotivi, unitamente alla lettura registica, producono qui una Violetta monocorde, quando già nel primo atto alcuni spiragli dovrebbero lasciare intravedere una ben più sfumata complessità emotiva. L’effetto permane nel secondo atto, quando la Rancatore non è certo aiutata né dai movimenti suggeriti dalla regia – in alcuni casi al limite del ridicolo, nel momento in cui decide di strattonare ripetutamente il compassato Germont, in grado di sovrastarla in altezza come in larghezza – sia dagli abiti desolatamente dimessi e a la garçon, giustificati da una presunta intensificazione della fragilità della protagonista (ma lo stesso effetto poteva essere ottenuto con mezzi ben più adeguati). Per tutti i precedenti motivi, il soprano non riesce a rendere lo spessore drammatico della rinuncia, mostrandosi più a suo agio nella quadratura melodica tradizionale che non nelle arcate più ariose che caratterizzano la scrittura musicale del secondo atto. Al contrario nel terzo atto la fanciulla morente compie un piccolo miracolo di interpretazione, impegnandosi a tal punto da trasmettere in ogni parola, nel canto come nei gesti, una partecipazione viscerale e intensa, come se il destino della traviata fosse il proprio. Con l’ultimo struggente canto di addio (“Addio, del passato”) la commozione della Rancatore passa al pubblico senza soluzione di continuità, e l’effetto di immedesimazione viene raggiunto con naturalezza, nonostante l’inopportuno taglio della seconda strofa. Comprimari insoddisfacenti, fatta eccezione per il dottor Grenvil (Manrico Signorini) e, in parte, per Flora Bervoix (Patrizia Gentile). Repliche sino al 30 novembre. Foto Franco Lannino/Studio Camera