Teatro Petruzzelli di Bari:”Pagliacci”

Bari, Teatro Petruzzelli, Stagione Lirica 2013/2014
“PAGLIACCI”
Dramma in un prologo e due atti.
Libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
Nedda MARIA KATZARAVA
Canio STUART NEILL
Tonio ALBERTO GAZALE
Beppe FRANCESCO MARSIGLIA
Silvio DARIO SOLARI
Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli
Direttore Paolo Carignani
Maestro del Coro Franco Sebastiani
Regia Marco Bellocchio
Scene, disegno luci Giovanni Carluccio
Costumi Daria Calvelli
Bari, 25 maggio 2014

Uno dei più celebri melodrammi italiani (Pagliacci) e uno dei massimi registi italiani viventi (Bellocchio) a confronto: questa la sfida lanciata dal nuovo allestimento prodotto interamente dalla Fondazione Petruzzelli di Bari che nelle due ultime stagioni proprio sulla componente registica ha investito attenzione ed energie. Bellocchio ha deciso d’ambientare la vicenda in un manicomio criminale (l’idea era sorta in occasione d’un progetto filmico su Pagliacci, poi sfumato) e ha inserito un ulteriore livello di metateatralità immaginando che quel luogo di reclusione, follia e sofferenza ospitasse una recita dell’opera di Leoncavallo. Si potrebbe ipotizzare che il regista abbia voluto proporre una sorta di allucinato sequel di Pagliacci? Nell’ultima didascalia del libretto il protagonista Canio, un violento divenuto pazzo per la gelosia, viene disarmato e arrestato. È plausibile che la sua futura destinazione fosse un carcere per malati di mente; un edificio che ben si presta a metaforizzare la ‘prigionia’ che attanaglia non solo l’attore come professionista ma anche il pubblico come spettatore passivo e, più in generale, l’arte stessa, da sempre imbrigliata tra finzione e realtà. Il pensiero di Bellocchio, senza dubbio sottile, sembra però non essersi pienamente concretizzato sul palcoscenico: il disorientamento non si è infatti limitato a cogliere gli spettatori, a seguito del completo svuotamento dei dati offerti dal libretto originale, ma ha toccato anche le dramatis personae che si sono mutate così in cinque personaggi in cerca d’autore, di spazi d’azione, di senso. L’elevazione al cubo del metateatro ne ha, insomma, depotenziato la tensione primigenia e ha comportato l’annientamento della drammaticità dell’epilogo tragico, dove il corto circuito tra fiction e vita reale alimentava quella suspence esasperata cara al verismo operistico. L’amara constatazione di Canio «La commedia è finita!» – qui intonata da Tonio che bruscamente annunciava la fine della recita ricreativa e imponeva a tutti i ‘degenti’ di tornare nelle celle – è suonata quanto mai grottesca (ma il pubblico barese ha applaudito comunque con grande calore senza nessuna contestazione).
Ben diversa, invece, la seconda idea metateatrale che consisteva nel mostrare al pubblico, sul fondale della scena, in tempo reale, le immagini delle videocamere posizionate nelle celle e nel cortile del carcere. In questo caso la sensibilità cinematografica di Bellocchio ha potuto esplicarsi appieno: osservare i primi piani su Nedda prima, Canio poi, alle prese con il trucco, ha offerto una indimenticabile riscrittura filmica del cuore poetico di Pagliacci, condensato nei versi finali del prim’atto, il celeberrimo monologo di Canio. Bellocchio dunque è riuscito a fare il suo film su Pagliacci, ma nella dimensione aforistica di un ‘micrometraggio’ muto, proiettato come sfondo d’una regia lirica.
Una volta abbandonata l’idea di vedere sulla scena il paesino calabrese del 1865-70  con chiesetta e vari bozzetti meridional-mediterranei pensato da Leoncavallo nel 1892, non si poteva non essere colpiti dalla splendida scenografia e dalle bellissime luci di Giovanni Carluccio, che trasmettevano una cupezza espressionista (da La ronda dei carcerati di Van Gogh, su su fino a Wozzeck) ma al tempo stesso una solennità arcaica, da tragedia classica (unica invasione del colore il cielo azzurro in videoproiezione che accompagnava il monologo di Nedda nella scena I.2). Analogo grigiore improntava i costumi confezionati da Daria Calvelli per i detenuti, contrastanti con quelli sgargianti degli attori. Il dialogo tra immagini in videoproiezione, costumi spenti e costumi accesi ha dato luogo a una dialettica cromatica di grande suggestione.
Analoga ricchezza ‘cromatica’ ha esibito l’Orchestra del Teatro Petruzzelli guidata da Paolo Carignani, generoso nella gestualità (talvolta un po’ troppo nervosa e a scatti), attento a sottolineare le raffinatezze dell’orchestrazione di Leoncavallo, ma non altrettanto preciso nel fornire gli attacchi ai cantanti e, soprattutto ai coristi, ricompattati dagli sforzi dentro le quinte del maestro Franco Sebastiani. Voci autorevoli confermano che il primo cast nelle due recite iniziali ha dato prova di grande valore. Purtroppo l’esibizione che qui si recensisce ha visto sfumare tale concentrazione, complice forse il caldo umido d’un pomeriggio domenicale pre-estivo. Ciò nondimeno è parso ottimo il Canio di Stuart Neill, che ha sopperito qualche problema di dizione con la bellezza del timbro, e la potenza di una voce tenorile tra le più notevoli del panorama internazionale. Assai meno convincente la Nedda di Maria Katzarava per via d’un’eccessiva uniformità del colore e soprattutto per le continue défaillances testuali. Molto buono sia il Tonio di Alberto Gazale, specialmente per la verve attoriale (anche se la voce sembrava davvero affaticata), sia il Silvio di Dario Solari, baritono dalla voce morbida, attualmente in chiara crescita qualitativa.Corretto il Beppe del tenore Francesco Marsiglia. Un peccato, perché scelte registiche così spiazzanti necessitano di essere supportate da un cast vocalmente ed emotivamente concentratissimo. Foto Carlo Cofano