“Il trionfo del tempo e del disinganno” al Teatro alla Scala

Milano, Teatro Alla Scala – Stagione Lirica 2015/2016 
“IL TRIONFO DEL TEMPO E DEL DISINGANNO”
Oratorio in due parti. libretto di Benedetto Pamphilj
Musica di Georg Friedrich Händel
Piacere LUCIA CIRILLO
Bellezza MARTINA JANKOVÁ
Disinganno SARA MINGARDO
Tempo LEONARDO CORTELLAZZI
Orchestra del Teatro alla Scala in collaborazione con “I Barocchisti” della RTSI (Radiotelevisione Svizzera Italiana)
Direttore Diego Fasolis
Regia Jürgen Flimm, Gudrun Hartmann
Scene Erich Wonder
Costumi Florence von Gerkan
Coreografia Catharina Lühr 
Milano, 13 febbraio 2016   
Quando nella primavera del 1707 il ventiduenne Händel musicò Il Trionfo del tempo e del disinganno, un oratorio-cantata scritto dal cardinale-mecenate Benedetto Pamphilj, non vi fu realizzazione scenica; i quattro cantanti che diedero voce alle personificazioni di Bellezza, Tempo, Piacere e Disinganno non avevano costumi e, al più, se mai un’esecuzione ebbe luogo a Roma nel Collegio Clementino, alle loro spalle furono impiegati fondali dipinti con opportune raffigurazioni allegoriche. È innegabile che questo lavoro, seppur pensato per un’esecuzione priva di dimensione rappresentativa, possieda un’intrinseca teatralità, allusiva a una gestualità tanto immaginaria quanto intensa. Offrirne, dunque, una resa mimetica e mutarlo da oratorio a melodramma è un’operazione artisticamente legittima. Il problema che emerge è tuttavia d’ordine squisitamente drammaturgico: come vivificare (sul piano visivo, gestuale, prossemico) la dimensione statica di arie motteggianti e di dialoghi sentenziosi? Nel 2007 Jürgen Flimm ideò una resa operistica del Trionfo per una produzione dell’Opernhaus di Zurigo, poi ripresa alla Staatsoper di Berlino nel gennaio 2012. Lo spettacolo scaligero ne segna la terza riproposta, pur con alcune varianti. Flimm, qui supportato dall’assistente Gudrun Hartmann, immagina che il dissidio interiore di Bellezza, divisa tra edonismo e consapevolezza dell’impermanenza umana, possa aver luogo in un night alto borghese degli anni ’30, luogo di spleen e di contrasti tra stati euforici e depressioni. Lo scenografo Erich Wonder si ispira allora all’architettura déco ricreando con dovizia di particolari un locale sul modello della celebre brasserie parigina Coupole, frequentata, tra gli altri, da Man Ray, Picasso e Josephine Baker. Ad apertura di sipario il colpo d’occhio è notevole e la scelta convince. Ma il Tempo non è solo un personaggio allegorico; è anche la dimensione reale in cui si dipana la musica; e Flimm si preoccupa di coprire la durata della partitura del giovane Händel con una sorta di ‘controscena’ lasciando trapelare un certo orror vacui.
La pantomima parallela al canto talvolta assume compiti didascalici nei confronti del testo intonato privilegiandone una parola chiave: «verno» nel duetto di Piacere e Bellezza giustifica l’ingresso di quattro uomini innevati e l’irruzione di una tempesta di neve; «bambino», nell’aria di Tempo Nasce l’uomo ma nasce bambino, fa maneggiare al personaggio una bambola di plastica (che poi viene smembrata a significare la caducità umana); la «bianca veste cinta», nel recitativo che apre la seconda parte, fa portare in scena una donna in abito da sposa; il «nocchier», oggetto dell’aria di paragone di Tempo, spiega la presenza di due marinai danzanti. E così via. Altre volte il simbolismo è più criptico (i ciechi che sfilano durante l’aria di Bellezza Voglio cangiar desìo possono accogliere spiegazioni plurime) e raffinato, come quando il Tempo (che peraltro durante l’intervallo passeggiava sul proscenio a sipario chiuso maneggiando il suo orologio da panciotto, quasi a ribadire la sua funzione), per indicare a Bellezza la sede della verità, mostra il pubblico in sala, abbattendo la ‘quarta parete’ che separa la vita reale dalla finzione scenica. Altre volte ancora la ‘controscena’ pecca di ridondanza: si veda il decesso di un avventore per overdose, l’inopportuna bambina che gioca a solitario, o le continue sfilate sul bancone del bar che, per quanto mostrino al pubblico splendide modelle, provocano rumori inficianti l’ascolto musicale. Nel libretto di Pamphilj poco prima della fine della prima parte la ‘vita reale’ del 1707 invase la creazione letteraria: il cardinale pensò di inserire Händel stesso all’organo, omaggiandolo con versi che ne elogiavano il genio. Flimm ha ritenuto consono far scorrere al centro della scena un organo barocco suonato da un figurante vestito da Händel e accompagnato da un violinista; pochi istanti prima Piacere aveva dismesso i panni ominili e si era vestito da dama settecentesca (tornerà in foggia maschile prima del quartetto Voglio tempo per risolvere).
Abiti settecenteschi indosseranno poi anche gli altri personaggi nella seconda parte dell’oratorio stabilendo così un dualismo di ambientazione, ovviamente limitato ai costumi, un poco confusionale per il pubblico. Il segmento più teatrale dell’oratorio, ossia quello in cui Piacere mostra a Bellezza la propria reggia, poteva essere sviluppato diversamente sul piano registico: in primo luogo non facendo separare i due personaggi per il cambio d’abito proprio in quel momento; in secondo luogo materializzando (qui sì!) con figuranti (e non con lo sfogliare riviste) le immagini del libretto ammiccanti a una rivisitazione omoerotica della classicità greca. Verso la conclusione dell’oratorio, a partire dall’aria Ricco pino, Bellezza si toglie la parrucca bionda e inizia la propria vestizione. Un buon numero di suore era già apparso rapidamente in scena durante l’aria di Piacere Un pensiero nemico di pace e, in seguito, prima dell’aria di Disinganno Più non cura valle oscura, qui attorniate da due chierichetti danzanti. Bellezza alla fine dell’oratorio aspira infatti a ritirarsi in «romito confine» e in «solitari chiostri»; Flimm la segue alla lettera mutandola in clarissa (magari avrebbe potuto evitare di farle cantare l’ultimo brano stesa al suolo con diaframma e bocca a terra) e lasciando qualcuno del pubblico, meno avvezzo ad ascoltare l’opera barocca sulle tavole della Scala, rimpiangere il Puccini di Suor Angelica.
Senza dubbio la buona intenzione di fondo del regista è stata quella di far accettare un oratorio di primo Settecento al pubblico scaligero, ma a renderlo possibile sarebbe bastata, da sola, la bravura di Diego Fasolis che della partitura händeliana padroneggia in modo impeccabile le dinamiche, gli stacchi di tempo, la stesura delle variazioni nei da capo, il rapporto voce/orchestra. La cosa da rimarcare è che Fasolis ha diretto solo otto dei suoi ‘barocchisti’, unitisi agli altri venti strumentisti membri dell’Orchestra del Teatro alla Scala, applicati a strumenti storici. Forse proprio la doppia competenza degli orchestrali, capaci di passare dal repertorio da eseguire su corde di budello ai poemi sinfonici di Strauss, ha dato vita a una particolarissima volumetria sonora che ha restituito i colori della strumentazione di Händel in tutto il loro splendore. Ottimo il cast vocale. Lucia Cirillo (Piacere) ha la voce sempre in punta, ben proiettata, nitida nelle colorature e nella dizione del testo, dà prova di intensità e al tempo stesso di controllo attoriale per l’intera durata dell’opera. Memorabile il suo Lascia la rosa che si è discostato da molte interpretazioni differenziando l’agogica della parte iniziale (più rapida del consueto) da quella della riproposta nel da capo (lenta e con variazioni all’insegna di un intimismo inedito). Un poco più arretrata la voce di Martina Janková e, all’inizio, non molto sonora e non troppo precisa nelle agilità (complice forse la stanchezza dopo ben sette recite), piccoli nei che nella seconda parte sono stati evitati. Sublime l’interpretazione di Disinganno offerta da Sara Mingardo che si conferma uno dei migliori contralti sulla scena internazionale. In particolare in Crede l’uom ch’egli riposi ha dato prova di rendere piene e sonore anche le zone più gravi della sua voce, mantenendo una morbidezza di fraseggio e dominando i passaggi di bravura con incomparabile eleganza. Notevole per timbro e verve attoriale il tenore Leonardo Cortellazzi che, nonostante qualche sfasatura ritmica con l’orchestra, ha saputo vincere le difficoltà di arie dalla tessitura centrale-bassa punteggiate da acuti improvvisi e insidiosi. Il pubblico della Scala, numerosissimo, ha potuto applaudire solo al termine delle due parti dell’oratorio ma ha seguito con silenziosa intensità l’oratorio di Händel confermando che il progetto di portare il mondo barocco nel tempio di Verdi sarà di sicuro vincente.