Palermo, Teatro Massimo: “Götterdämmerung”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2016
“GÖTTERDÄMMERUNG” (Crepuscolo degli dèi)
Terza giornata della sagra scenica Der Ring des Nibelungen, in un prologo e tre atti
Musica e libretto di Richard Wagner
Siegfried CHRISTIAN VOIGT
Gunther ERIC GREENE
Alberich SERGEI LEIFERKUS
Hagen MATS ALMGREN
Brünnhilde  IRÉNE THEORIN
Gutrune ELIZABETH BLANCKE-BIGGS
Waltraute  VIKTORIA VIZIN
Erste Norn  ANNETTE JAHNS
Zweite Norn / Wellgunde  CHRISTINE KNORREN
Dritte Norn / Woglinde STEPHANIE CORLEY
Flosshilde  RENÉE TATUM
Ein Mann ANTONIO BARBAGALLO
Ein anderer Mann CARLO MORGANTE
MIMI
Grane, il cavallo di Brünnhilde Jean Maurice Feist
Il cavallo di Waltraute Giuseppe Randazzo
I corvi di Wotan Giuseppe Claudio Insalaco, Rocco Buttiglieri, Daniela Allotta, Valeria Almerighi, Valentina Apollone, Mirco Arizzi, Rocco Buttiglieri, Innocenzo Cancemi, Marco Canzoneri, Giovanni Caruso, Livia Cintioli, Marzia Coniglio, Giuseppe Conti, Enrico Costanzo, Giulia Cutrona, Gabriella D’Anci, Arianna D’Arpa, Salvatore De Franchis, Salvatore Dolce, Jean Maurice Feist, Diletta Giannola, Rossella Guarneri, Giuseppe Claudio Insalaco, Chiara Leone, Dario Leone, Marco Leone, Sergio Lo Coco, Valentina Lo Duca, Giuseppe Lo Piccolo, Alberto Maggiore, Antonio Mandalà, Oriana Martucci, Cinzia Mazzi, Luigi Salvatore Milazzo, Sergio Modica, Sabrina Pecoraro, Marzia Pellegrino, Ennio Pontorno, Giovanni Prospero, Giuseppe Randazzo, Angela Ribaudo, Sara Scarponi, Marcella Vaccarino.
Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Direttore Stefan Anton Reck
Maestro del Coro Piero MontiDirettore
Regia Graham Vick
Scene e costumi Richard Hudson
Azioni mimiche Ron Howell
Lighting designer Giuseppe Di Iorio  
Nuovo allestimento del Teatro Massimo
Palermo, 28 gennaio 2016  
Un’inaugurazione all’insegna della fine. Non potrebbe esservi definizione più calzante per il grandioso allestimento della Götterdämmerung che ha aperto la stagione 2016 del Teatro Massimo di Palermo. Non soltanto perché con esso si conclude il progetto della tetralogia affidato alla regia di Graham Vick, ma anche per la ben nota aura di decadenza che l’opera porta in sé, evidente sin dal titolo. Vick ci mette del suo, accentuando le caratteristiche autodistruttive del capolavoro wagneriano e componendo una drammaturgia che annulla ogni possibile illusione. Sono innanzitutto le tre Norne a intessere il filo della memoria, espresso efficacemente nella narrazione e musicalmente dal riecheggiare degli accordi sui quali Siegfried aveva risvegliato Brünnhilde. La disgregazione dei Leitmotive è però già in atto. L’orchestra, diretta ancora magistralmente da Stefan Anton Reck, fa il grosso del lavoro e lo si avverte a partire dalle primissime battute. Compattezza e attenzione al dettaglio sono infatti le linee guida che presiedono alla prova della compagine strumentale del Massimo, rinsaldando il legame con quanto avviene sul palcoscenico. Si realizza così un’intesa quanto mai profonda fra strumenti e personaggi, soprattutto fra Siegfried e i corni, spesso dislocati nei palchi, all’ingresso della platea o dietro le quinte, ma sempre associati alla posizione immaginaria del personaggio e all’effetto del suono in lontananza. L’intreccio sinfonico raggiunge momenti ispirati proprio all’interno del primo atto, in particolare nella scena tra Brünnhilde e Siegfried (con il progressivo intensificarsi del tema amoroso, sul quale si innesta il tema eroico dell’ultimo dei Wälsidi), e durante il viaggio sul Reno. A rendere perfetta la Rheinfahrt è anche l’ideazione scenica di Vick. Mimi e danzatori impersonano infatti i flutti del fiume, prima sul palcoscenico e poi in platea, lungo le due fila delle poltrone di giro. Il Reno prende dunque letteralmente vita in un turbinio di onde, di gorghi e imprevedibili vortici, rivelando una sorprendente capacità iconica sempre esaltata dalle coreografie di Ron Howell. Come già si è notato in Die Walküre, è nel processo di antropomorfizzazione degli elementi naturali che risiedono le intuizioni più affascinanti del regista, in perfetta continuità con Das Rheingold (la più convincente delle quattro opere) e parzialmente in contrasto con Siegfried. L’importanza che Vick assegna alla componente mobilmente umana della natura costituisce dunque il punto di forza dell’impianto registico e fonda l’efficacia di Götterdämmerung. L’altro aspetto da evidenziare è la coerenza con cui Vick rimane fedele al libretto. Infatti, pur proponendo una lettura innovativa, a tratti eccessiva e sregolata, il senso delle parole viene di rado tradito, ma tradotto secondo interpretazioni plausibili. Tutto questo ha reso il palermitano Ring des Nibelungen un prodotto sì originato dalla sbrigliata inventiva del regista inglese, ma senza mai rinnegare l’autorialità di Wagner. Un chiaro esempio si ha proprio nel prologo di questa ultima giornata, dove il filo delle Norne diventa il cavo di detonazione dei candelotti di dinamite, poi inseriti nello zaino che Siegfried porterà con sé nel corso delle sue peregrinazioni. La dinamite rientra dunque fra quegli elementi che ci ricordano la fine imminente di un mondo fin dal principio votato alla distruzione. E le tre Norne ricapitolano l’arco narrativo di quel mondo, interpretandolo ciascuna a proprio modo: intensa e con accenni diretti Annette Jahns (già apprezzata Schwertleite in Die Walküre), efficace nel fraseggio Christine Knorren, squillante e attraente Stephanie Corley (Freia in Das Rheingold). Tutte e tre guardano però in lontananza, oltre la linea del proscenio, proiettate in una dimensione che non appartiene più né agli dèi né agli uomini. Una dimensione della quale è ben consapevole anche Waltraute, avendone visti i presagi nel Walhalla. Riprendendo l’atteggiamento perentorio da valchiria, Viktoria Vizin (Waltraute) è interprete di grande presenza scenica, sostenuta da buona tecnica, oltre che dall’affidabile destriero (il mimo Giuseppe Randazzo) e dalle splendide scarpe iridescenti.   Cromaticamente contrastante è la scena nella reggia dei Ghibicunghi, accecante nel bianco del pannello sopravanzato che si oppone ai neri propositi di Hagen. Quest’ultimo è affidato alla voce quasi sovrannaturale di Mats Almgren, associata a un’interpretazione superlativa. Che il cantante riesca a far gelare il sangue nonostante sia abbigliato da allegro montanaro con bretelle rosse e pantaloni al polpaccio risulta ancor più miracoloso. E non è soltanto la voce tenebrosa a rendere la complessità del personaggio, ma soprattutto l’atteggiamento e lo sguardo di ghiaccio che colpisce durante le non rare incursioni di Almgren in platea. Hagen sembra guardare tutto e allo stesso tempo non guardare nulla, anche lui fisso in un proposito ossessivo che lo estranea dalla realtà, trasportandolo in una dimensione tutta mentale. Ad affiancarlo è un Gunther altrettanto magnetico, segnato dal ritorno sul palcoscenico del Massimo di Eric Greene. Impossibile dimenticare il suo Donner e ancor più difficile dimenticarlo in questo ruolo, per la perfetta forma vocale, l’energia dei movimenti e l’accattivante costruzione di un personaggio che nella visione di Vick si presenta debole e corrotto. Gunther è vittima di alcool e cocaina, e la scritta sull’elastico degli slip (addicted) diviene un’etichetta che lo marchia in modo indelebile. Non ha invece bisogno di etichette la Gutrune di Elizabeth Blancke-Biggs, discinta e incline ad atteggiamenti incestuosi con il fratello. La donna è il riflesso speculare del fratello e vocalmente la Blancke-Biggs sa rendere con nota insinuante la valenza seduttiva del personaggio. Sia Gunther che Gutrune sono dunque attratti dall’apparenza e dalla fama del momento, ma si collocano su tutt’altro piano rispetto ad Hagen. Come il fratellastro, anche Hagen è però identificato da un’etichetta (deicide) che rivela la natura apocalittica dei suoi propositi. E nel suo piano malvagio è supportato da un Alberich sempre efficace – Sergei Leiferkus in sedia a rotelle – e dal Coro del Teatro Massimo, convincente nell’esprimere la potenza barbarica del popolo dei Ghibicunghi.   In questo mondo di cattivi e ‘non buoni’ si muove il Siegfried di Christian Voigt, anello debole di un meccanismo che purtroppo va a incepparsi proprio nel protagonista maschile. Voigt è senza dubbio un attore spigliato, simpatico e coinvolgente, che sa muoversi agevolmente sulla scena. Tuttavia se la scioltezza dei movimenti sembra alludere a un percorso di maturazione, non lo stesso si può dire per la voce, fortemente distante dal prototipo dell’Heldentenor caratterizzato da ricchezza di accenti e pienezza di volume. Il tenore è infatti in difficoltà sin dall’inizio e prosegue con risultati discontinui, proponendo momenti convincenti (il saluto alla vita dopo essere stato colpito a morte da Hagen, affrontato in totale solitudine) e passaggi problematici (il duetto con Brünnhilde e le scene centrali del primo atto). Come nella seconda giornata, il protagonista non sta dunque alla pari con Brünnhilde, qui interpretata da una bravissima Iréne Theorin specializzata nel difficile ruolo della valchiria. Il percorso del soprano svedese prende le mosse da presupposti inizialmente non molto incisivi, per poi acquistare sempre più in intensità e partecipazione. Il punto di passaggio si ha proprio alla fine del primo atto, quando lo strazio della sua voce aumenta con il passare dei minuti, mentre nel secondo la sua ira è un concentrato di acuti resi ancor più travolgenti dall’espediente della passerella sulla platea. Attraverso l’interpretazione della Theorin si evolve l’atteggiamento di Hagen, sempre più intensamente diabolico, e di Gunther, ormai intimamente lacerato. E proprio il dialogo fra Brünnhilde e Hagen si svolge con quest’ultimo che si aggira nell’oscurità della platea, come se la protagonista parlasse con se stessa. L’estraniamento tocca l’apice nella scena finale del terzo atto, sullo sfondo della catasta dei ricordi di Siegfried (la spada, il corno, l’orsacchiotto, l’uccellino, il drago) accumulatasi nel corso di una Trauermarsch musicalmente poco efficace. Il finale concepito da Vick è improntato a un nichilismo che non lascia spazio né a speranza né tanto meno a redenzione, coinvolgendo gli spettatori nella caduta di dèi e uomini. Seguendo il presagio del Siegfried, l’unico accenno di speranza e umanità risiede soltanto nell’abbraccio tra la valchiria e Grane (Jean Maurice Feist) prima dell’immolazione tra le fiamme che già lambiscono il Walhalla. Brünnhilde conferma così il proprio volto di donna, rinnegando qualsiasi legame con la natura di indomita guerriera. E proprio in questo risiede il travisamento di Vick: i personaggi rimangono infatti sempre uguali a se stessi, come bloccati in uno stereotipo che non li porta a cambiare nel corso del Ring. Un discorso che non riguarda soltanto Brünnhilde, sin dall’inizio fragile donna e mai granitica vergine, ma anche il giovane Siegfried, che in Götterdämmerung mantiene la cifra adolescenziale presa in eredità dalla precedente giornata. Waltraute assiste già al disfacimento degli dèi, ma rimane una prepotente virago che soggioga il suo destriero, così come le tre ondine – interpretate dalla Corley e dalla Knorren, insieme alla brava Renée Tatum – che pur private dell’oro vengono ancora presentate nelle ‘vesti’ di «lustigen Frauen». Eppure intorno tutto cambia: il campo di papaveri che fa da sfondo al duetto fra Brünnhilde e Waltraute è ormai sbiadito, mentre all’inizio del terzo atto il Reno è pressoché immobile e privo di vita. In un ciclo improntato alla fissità psicologica dei personaggi, alla scarnificazione talvolta inopportuna delle scene di Richard Hudson, è ancora la natura a muoversi, a cambiare, a evolversi, a mutare. Una natura attraversata dalla luce vivida, attenuata, cangiante, sfumata o improvvisa, ma sempre avvincente grazie alle invenzioni di Giuseppe Di Iorio. Ed è proprio nella Götterdämmerung che l’apoteosi luminosa ci regala due momenti indimenticabili: la discesa di Waltraute dall’alto dei palchi e il risveglio di Siegfried e Brünnhilde, bello e splendente come un’aurora. Anzi, ho sbagliato il raffronto: bello e splendente come un crepuscolo.