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Si tratta dell’ultima opera di Purcell, scritta nel 1695, su una trama incomprensibile, in cui si narra di una guerra tra i Maya e gli Aztechi, e di una principessa Azteca che si innamora di un guerriero Maya, il tutto condito di sacerdoti, cori trionfali, e gli immancabili sacrifici umani. In quell’epoca l’Europa era affascinata dagli “indiani”, i nativi americani che venivano sterminati mentre noi ne cantavamo le gesta, gli usi e i costumi in meravigliose opere barocche (v. Les Indes Galantes).

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Currentzis suona il tamburo mentre dirige l’orchestra

Il kitsch già presente nell’opera originale viene aumentato di diversi ordini di grandezza dall’operazione del regista Peter Sellars, che, non pago di una storia già così improbabile, la cambia e la estende. I conquistadores spagnoli prendono il posto dei Maya; numerosi numeri musicali (tutta musica di Purcell, per fortuna) vengono aggiunti, e una voce recitante racconta pezzi di storia che hanno lo scopo di raccordare i vari numeri musicali aggiunti, tra loro e anche con la storia originale di The Indian Queen. Il risultato è un po’ il musical Mamma Mia, in cui una storia stramba ha l’unico scopo di raccordare le canzoni degli ABBA. La ciliegina sulla torta è che la voce fuori campo ci racconta tutta la storia di come la principessa azteca, che dovrebbe spiare le mosse del comandante spagnolo, e completamente travolta dalla sua virilità guerriera, e si scioglie innamorandosi di lui e lo tratta come un dio. Bleah. Per fortuna la rappresentazione era in forma di concerto, per cui ci siamo risparmiati i balletti, e un sacco delle cretinate della versione messa in scena; però i cantanti un po’ “recitavano”, in maniera insopportabile, e la voce fuori scena era francamente imbarazzante.

In questa produzione teatrale, sbagliata da ogni possibile punto di vista, la produzione musicale è stata OTTIMA. E intendo ottima in maniera esaltante, di quelle che poi non si riesce a dormire. Ma andiamo con ordine.

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Paula Murrihy

L’orchestra e il coro venivano dall’Opera di Perm, una città russa che si trova quasi in Siberia, non esattamente il primo posto che viene in mente quando si pensa “eccellenza musicale”. L’orchestra si chiama musicAeterna, fondata e diretta da Teodor Currentzis, che non esito a definire un genio. Il suo impegno e la sua devozione alla musica sono assoluti e totalizzanti. Si prende cura di ogni singola nota, la pensa, la considera, le da’ forma, e poi la “suona”. Una delle cose più impressionanti è la sua concentrazione: è sempre attentissimo, non molla mai, neanche un secondo. Il risultato è emozionante, commovente e appassionante. C’erano più di tre ore di musica, oltre alla pausa, tre ore e passa di recitativi e arie e cori barocchi, e sono passate in un lampo. Non mi sono mai sentita stanca, non ho perso una battuta, e sicuramente non ero l’unica: l’intero pubblico è rimasto rapito da questo pazzo, che ci ha dato un’interpretazione meravigliosa.

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Johanna Winkel

Ok, ora vi dico anche i lati negativi. È una Prima Donna micidiale. Danza sul palco, recita, salta di qua e di là come una ballerina, suona il tamburo. “Suona” i cantanti, come fossero strumenti. Quanto un cantante ha il suo assolo, lui si allontana dal “podio” (non c’era un podio vero e proprio) e gli si avvicina, e lo dirige personalmente, tirando fuori le note con le mani, e dicendo le parole senza suono insieme a lui. La mia amica Aurelia ha trovato questa cosa un po’ distraente, ma a me è piaciuta l’idea che lui facesse il burattinaio, il “suonatore di cantanti”. Un’altra cosa che mi ha dato noia è stato com’era vestito: jeans neri, anfibi, e una camicia nera un po’ rinascimentale, abbottonata dietro, con i polsini increspati. Ma la cosa più odiosa che fa è che pesta i piedi (non sempre, ma abbastanza spesso da dare noia), fa rumore, è come avere un tamburo che batte ogni tanto, a casaccio. E quando lo fa in mezzo a un coro trionfale pazienza, ma se è in mezzo a un recitativo non va bene, non va bene per niente. Tutto ciò non inficia minimamente il suo immenso gusto musicale, e la sua abilità di comunicare una gioia, un divertimento nella musica veramente rari e preziosi.

L’orchestra stessa è stata fenomenale: è il suo giocattolo, e risponde benissimo al suo direttore. Danzano insieme: i musicisti chiaramente capiscono la sua visione musicale, e la condividono. Era una strana accozzaglia di strumenti barocchi e “normali”. I violini (secondo me) erano barocchi, così come sicuramente lo erano le trombe e gli oboi. Ma c’erano violoncelli di entrambi i tipi, con archetti di entrambi i tipi, però tutti venivano suonati senza puntale, tenuti fermi dalle gambe. C’era anche un arpeggione, l’antenato del violoncello, con 6 corde. L’orchestra era grande, più grande delle solite orchestre con strumenti antichi, e veramente ottima. Una cosa che non mi è piaciuta è che il continuo era amplificato. Capisco che la tiorba e l’arpa barocca non si sentano in una grande sala da concerta, ma insomma, che cattivo gusto.

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Ray Chenez

E veniamo al coro, il migliore in campo! Insieme agli amici che erano con me, abbiamo convenuto che non abbiamo mai sentito un gruppo che cantasse bene come il coro dell’opera di Perm, che ci ha regalato una serata meravigliosa. Esprimevano un sentimento, un’interpretazione irresistibili, veicolati da un’abilità tecnica assolutamente perfetta. I loro pianissimi impossibili scioglievano il cuore, e, in generale, le loro dinamiche, le messe di voce, i crescendo e i diminuendo erano splendidi, ed estremamente comunicativi.  La loro padronanza dell’ensemble era incredibile: a un certo punto, durante un inno religioso, le luci si sono abbassate, il direttore si è seduto per terra, e loro sono andati avanti, respirando insieme, facendo insieme tutte le corone, tutte le dinamiche, i cambiamenti di tempo, tutto da soli. Al buio. È stato incredibile. Hanno raccolto l’unico applauso a scena aperta di tutta la sera, ed era assolutamente meritato.

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Il coro dell’opera di Perm, in una foto ironica

E ora i cantanti!

Paula Murrihy era la principessa azteca, ed era l’unico personaggio principale: ha cantato più di tutti gli altri, ed era l’unica che avesse una qualche caratterizzazione psicologica. E bravissima nella musica barocca, ma la sua voce è molto rotonda con un bel vibrato, ed è adatta anche alla musica romantica (fa anche Carmen). Mi è piaciuta molto: ha un’interpretazione emotiva e calda, molto efficace sia nelle parti dell’Indian Queen, sia nelle meravigliose canzoni di Purcell che le sono toccate.

L’altra donna era Johanna Winkel, un soprano tedesco che non canta molto nell’opera. Fa molti concerti e recital, ma opera non tanto. La sua voce è molto alta, e, a volte, un po’ “scoperta”. Mi sembra che dovrebbe coprire gli acuti un po’ di più. Aurelia dice che è una scelta stilistica, e può essere vero, in effetti. Le è toccata la canzone “O Solitude”, che è una di quelle lamentazioni strazianti di Purcell, e l’ha fatta veramente benissimo.

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Christophe Dumaux

Poi avevamo due controtenori, uno dei quali è uno dei miei cantanti preferiti al mondo: Christophe Dumaux! Adoro il suo timbro di voce. È così caldo, così rotondo, pieno, così non da controtenore. E la sua proiezione, quasi da tromba, rende la sua voce in uno strumento di registro alto, ma stranamente virile. Ha un grande gusto musicale, sa veramente come si canta questa roba. La sua Music for a while è stata un gioiello. Ho dovuto chiudere gli occhi perché il regista gli ha fatto fare delle scemenze mentre cantava, ma l’ha fatta veramente come un Maestro, e lo dico io che l’ho sentita da Andreas Scholl.

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Thomas Cooley

L’altro controtenore era il giovanissimo Ray Chenez, un soprano molto acuto. La sua voce è incredibilmente acuta, e la sua facilità nel registro alto impressionante. La qualità della voce è un po’ più da controtenore “normale”, un po’ metallica, ma non sforzata, mai. Penso che potrebbe diventare veramente bravo, mi piacerebbe molto sentirlo ancora. Ha un difetto grosso però. Ha cantato Cherubino. I controtenori che cantano Cherubino vanno scamazzati.

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Jarrett Ott

Poi avevamo tre uomini che cantavano da uomini: un tenore, un baritono e un basso, tutti estremamente bravi. Il tenore Thomas Cooley è uno specialista barocco, Bach in particolare; Jarrett Ott, baritono, è un giovane cantante americano, una stella nascente, e Willard White, basso, è uno splendido settantenne giamaicano, che fu selezionato dalla Callas per una delle sue masterclass nel 71/72. È ancora bravissimo!

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Willard White

È stata una serata musicalmente meravigliosa. Pur con tutti i distinguo e le pecche che non ho mancato di sottolineare, abbiamo lasciato il teatro con una sensazione di gioia, la sensazione che la musica aveva vinto.

 

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