Milano, Teatro alla Scala: “The Turn of the screw” (Il giro di vite)

Milano, Teatro Alla Scala, Stagione Lirica 2016/17
“THE TURN OF THE SCREW” (Il giro di vite)
Opera in un prologo e due atti su libretto di Myfanwy Piper dal racconto di Henry James
Musica di Benjamin Britten
The Prologue / Quint IAN BOSTRIDGE
The Governess MIAH PERSSON
Miles SEBASTIAN EXALL*
Flora LOUISE MOSELEY*
Mrs.Grose JENNIFER JOHNSTON
Miss Jessel ALLISON COOK
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Cristoph Eschenbach
Regia Kasper Holten
Scene, costumi e video Steffen Aarfing
Luci Ellen Ruge
Drammaturgia Gary Khan
*Trinity Boys Choir – Direttore David Swinson
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 17 ottobre 2016
Titolo chiave del Novecento musicale e vertice britteniano di sperimentazione drammatica e indagine psicologica, The Turn of the Screw torna alla Scala dopo quarantacinque anni di assenza e per la prima volta in lingua originale. Giunto alla sua terza composizione da camera – commissionatagli nel 1954 dalla Biennale di Venezia – Britten pensa ad un progetto d’opera destinata al cinema scegliendo di mettere in musica un capolavoro della narrativa fin de siécle: “Il giro di vite”, celebre racconto gotico di Henry James.  Non è un caso se il soggetto scelto, oltre ad essere in linea con la poetica del compositore, andando a toccare i suoi prediletti temi dell’innocenza e della corruzione, abbia il pregio di prestarsi perfettamente – attraverso il legame con il soprannaturale – ai possibili effetti e mezzi espressivi che il linguaggio cinematografico offre (e il gran numero di trasposizioni sul grande schermo lo conferma, a partire da un memorabile The Innocents diretto nel 1961 da Jack Clayton con sceneggiatura di Truman Capote). Interessante dunque l’evidente richiamo alla Settima Arte in questo raffinatissimo allestimento firmato dal regista danese Kasper Holten, Direttore Artistico alla Royal Opera House e debuttante in Scala, affiancato dal drammaturgo Gary Kahn. Lo spettacolo è concepito come se lo sguardo dello spettatore sui protagonisti fosse filtrato da una cinepresa, dando vita a vere e proprie inquadrature delimitate da quinte scure e pannelli scorrevoli, mossi da logiche ora funzionali, ora espressive. Questi possono infatti posizionarsi in modo tale da nascondere o mostrare determinate stanze della casa, oppure – come accade più di una volta nei momenti di maggior tensione drammatica – chiudersi sulla protagonista in una sorta di primo piano claustrofobico e costrittivo, metafora visiva dell’opprimente condizione psichica dell’Istitutrice. Guardando oltre questi sipari mobili, sui quali vengono videoproiettate le affascinanti illustrazioni monocromatiche di Steffen Aarfing – responsabile di scene e costumi – troviamo una sezione di interni algidi e angoscianti in un castello di Bly senza tempo (solamente negli austeri costumi risiede qualche riferimento all’epoca vittoriana). Impreziosita dai delicati giochi di chiaroscuro e controluce della light designer Ellen Ruge, la composizione della scena è nella sua semplicità perfettamente equilibrata ed elegante. Sulla destra si dispongono tre angusti loculi quadrati che ospitano tre camere da letto, mentre sulla sinistra si apre un vasto salone luminoso delimitato da lunghe tende, destinate a mutare nel corso dell’opera di pari passo con il crescente dominio di Quint e Miss Jessel sui bambini (e a latere delle incontrollabili e ambigue pulsioni dell’Istitutrice in contrasto con la propria educazione puritana). Questa avanzata inarrestabile del male che porterà al tragico epilogo è efficacemente tradotta a livello visivo da incombenti drappi neri che sembrano colare dai tendaggi candidi del salone, fino a sovrastarli completamente. Una soluzione semplice ma di forte impatto, impreziosita da un ulteriore riferimento cinematografico: una possibile citazione dal “Giro di Vite” del 1981, noto e pregevolissimo film-opera con la regia di Peter Hall e la London Philharmonic guidata da Bernard Haitink. Nella pellicola, analogamente a quanto accade in scena, sull’abito bianco dell’Istitutrice iniziano a diramarsi dall’orlo inferiore della gonna ricami neri che avanzano di scena in scena come un’infestante pianta rampicante, fino ad invadere e avvolgere prepotentemente l’intero abito. Tornando a noi, ben presto scopriamo che al di sotto del salone si nasconde un asettico e inquietante sotterraneo cui si accede tramite una scala a chiocciola metallica. Una scelta, questa, sottile e suggestiva in riferimento al “giro di vite” del titolo: un’inesorabile spirale che riporta a galla quel che nell’uomo è oscuro e nascosto, il ponte tra conscio ed inconscio, innocenza e corruzione. Assistiamo in sintesi a una messinscena perfetta nella sua bellezza algida, che dà nettamente più peso a una chiave di lettura psicanalitica della vicenda e dei suoi protagonisti, piuttosto che enfatizzarne l’appartenenza al filone ghost-story.  Ma non è solo l’occhio che questo spettacolo appaga, anzi: sul fronte musicale sarebbe davvero stato difficile aspettarsi di meglio. L’Orchestra del Teatro alla Scala, nella sua riduzione da camera, è composta di soli tredici (talentuosi) elementi in buca, che grazie all’esperta guida di Christoph Eschenbach riescono perfettamente a sondare tutte le sfumature della partitura, interpretandole con tanta efficacia e intensità da sembrare a tratti una formazione orchestrale al completo. Il direttore tedesco propone una lettura ricca di tensione drammatica, viscerale e violenta, che trova il suo culmine nell’incalzante passacaglia finale. Altrettanto ben interpretate sono le atmosfere più fluttuanti e ineffabili cui si legano i tratti di dolcezza dell’Istitutrice e la purezza dei bambini, come la serie di nursery rhymes tra cui si insinua nella scena sesta del primo atto la significativa “Malo, Malo”, canzone di Miles che porta con sé il leitmotiv ambiguo e sinistro che percorre tutta l’opera, simbolo della vulnerabilità della gioventù e della perdita d’innocenza.
Sul palco eccelle un cast molto ben assortito e preparato tanto sul fronte scenico quanto su quello vocale. Miah Persson è un’Istitutrice esemplare e a tutto tondo. Dotata di straordinaria musicalità, sfoggia una bella linea vocale sempre luminosa e soave, interrotta con estremo controllo dai passaggi più convulsi e febbrili che segnano nella donna l’affiorare della nevrosi. Il suo “Who is it?” è semplicemente da cardiopalma, come struggente è ad esempio – sul fronte espressivo totalmente opposto – l’aria “Sir, dear Sir”, davvero ben resa nel complesso equilibrio tra dolcezza, senso di colpa ed eccitazione. Ian Bostridge, al suo debutto scaligero in scena dopo i successi in recital, è ammaliante nel doppio ruolo del Prologo e di Peter Quint. Il tenore inglese, con uno slanciato e quasi evanescente physique du rôle che calza a pennello, tra melismi e incalzanti passaggi prossimi al recitativo conquista tanto il piccolo Miles quanto il pubblico, sempre elegante ed incisivo nel fraseggio. Allison Cook è una magnetica Miss Jessel, estremamente convincente nel coniugare un canto slanciato ed espressivo con una gestualità estremamente naturale. Ottima l’intesa tra i due spiriti, in particolare quando emergono dal letto dell’istitutrice sospeso al centro della scena, intonando il duetto in cui si annuncia l’inquietante compimento del verso di Yeats “The ceremony of innocence is drowned”. Jennifer Johnston presta una bella voce calda e pastosa al ruolo di Mrs Grose, a volte non troppo composta nei suoi interventi ma sempre in linea con il personaggio. Bravi i due ragazzi, appartenenti al Trinity Boys Choir diretto da David Swinton. Sebastian Exall delinea un Miles puerile e indifeso con una voce minuta e a tratti dolcemente tremula, affiancato dall’ottima Flora di Louise Moseley. Nonostante un teatro purtroppo ben lontano dall’essere sold out, l’ultima recita in programma si chiude ancora una volta con il caloroso entusiasmo del pubblico, il giusto tributo a uno dei titoli più riusciti e affascinanti della stagione scaligera.