Violetta Valery | Mihaela Marcu |
Flora Bervoix | Daniela Innamorati |
Annina | Alessandra Contaldo |
Alfredo Germont | Antonio Gandia |
Giorgio Germont | Marcello Rosiello |
Gastone | Giuseppe Di Stefano |
Barone Duphol | Davide Fersini |
Marchese d'Obigny | Matteo Mollica |
Dottor Grenvil | Shi Zong |
Regia | Alice Rohrwacher |
Scene | Federica Parolini |
Costumi | Vera Pierantoni Giua |
Luci | Roberto Tarasco |
Movimenti coreografici | Valentina Marini |
Direttore | Francesco Lanzillotta |
Maestro del Coro | Martino Faggiani |
Orchestra dell'Opera italiana | |
Coro Claudio Merulo di Reggio Emilia |
Nel 1990 al teatro Municipale Valli di Reggio Emilia fu rappresentata una Traviata (protagonista il soprano Denia Mazzola) vista dal regista Ivo Guerra come una storia oggetto di un film o forse di uno spettacolo televisivo, con le telecamere che invadevano la scena inseguendo i personaggi e le loro relazioni.
Il cinema è ritornato per La Traviata di cui alla presente recensione: la regista cinematografica Alice Rohrwacher, alla sua prima esperienza operistica, ha pensato al suo mondo artistico e ha visto la creazione verdiana come l’avventura intima di un’attrice che sul set interpreta il ruolo della protagonista, anche se l’interazione attrice-Violetta non risulta sempre chiara. In una intervista rilasciata a La Repubblica durante le prove, lei stessa ha dichiarato che di Traviate “tradizionali”, anche molto belle, ne sono state messe in scena tante e che ha voluto quindi percorrere un’altra via.
La scena di Federica Parolini, uguale per tutti i tre atti richiesti dal libretto, è formata da una landa grigiastra con una collinetta-duna verso il fondo del palcoscenico (il “popoloso deserto che appellano Parigi” come afferma la regista); nel primo atto, sulla destra, una stanzetta con un letto, tanti fiori e un’attrice (il ciak battuto da una comparsa rivela che si sta girando una scena: a sipario aperto durante il preludio, che perde il suo fascino anticipatore dei temi che indicano la frivolezza e l’appassionato amore di Violetta), la quale sfoglia una margherita. Finito il preludio e finita la ripresa cinematografica, si accendono le luci su tutta la scena e vediamo i coristi applaudire e festeggiare l’attrice, con prosieguo abbastanza coerente del libretto. Nel secondo atto sul set scompare e compare una voragine che sarà la “casa” di Violetta e Alfredo, mentre dall’alto incombe una grande zolla strappata al terreno, da cui pendono inquietanti radici (l’inesorabile destino?), la quale scende a richiudere la voragine per il quadro della festa in casa di Flora. Segue dopo il concertato e senza intervallo il terzo atto: errore drammaturgico e musicale. Durante il preludio vengono proiettate immagini di una bimba (Margherita-Violetta nella sua infanzia) in mezzo a un prato, che raccoglie e sfoglia margherite e che entrerà in scena nel finale per abbracciare la morente. Un’illuminazione talvolta suggestiva (di Roberto Tarasco) ha sottolineato i vari momenti scenici.
Una simile impostazione avrebbe richiesto un attento e capillare lavoro sulla gestualità dei cantanti, spesso lasciati immobili al proscenio a cantare le loro melodie rivolti al pubblico come in un concerto. Più intensa e variata la gestualità di Violetta, talvolta però esteriormente agitata invece che intimamente drammatica e straziata nel suo sacrificio: la regista ha voluto, più che il sacrificio d’amore, sottolineare il ritorno alla infantile innocenza di Violetta, in ciò sostenuta dal costume dorato e pesante come una corazza, indossato dalla “traviata” quando esercita il suo mestiere e tolto a favore di una candida veste bianca quando le sembra di poter vivere una vita di rinnovato candore. Questo costume dorato e sovrabbondante di lustrini è uguale a quello di Flora durante la festa di carnevale, ambedue le donne sono prostitute prigioniere del loro ruolo nella società: questi due capi d’abbigliamento li ha firmati la stilista Miu Miu. Gli altri costumi, di Vera Pierantoni Giua, sono abiti moderni per i solisti, palandrane grigie per i coristi operatori sul set, che in seguito si presentano scamiciati e anche seminudi nella festa chez Flora, quando strapazzano e deridono Alfredo durante i cori delle zingarelle e dei toreri, per poi chiedergli stupiti “Alfredo! Voi!”.
Il coro istruito da Martino Faggiani ha eseguito con vivacità le richieste della regia e ha cantato con sicurezza e precisione. Il direttore Francesco Lanzillotta ha diretto con polso sicuro, ma lasciandosi andare a qualche intemperanza fonica (soprattutto nel concertato finale dell’atto secondo) e rinunciando a sottolineare l’intimità drammatica e straziante della vicenda di Violetta. Ha riaperto i tradizionali tagli del terzo atto (seconda strofa di “Addio del passato” e duetto “Gran Dio, morir sì giovane”), ma le cabalette dei due Germont non hanno beneficiato della loro ripresa.
Antonio Gandia (Alfredo) ha voce che sale con baldanza all’acuto, sonoro e ben timbrato, come nella cabaletta “O mio rimorso”, con la quale ha raccolto un bell’applauso, ma spesso la voce si impoverisce, perde il colore e causa un appiattimento della espressività. Un Alfredo comunque impetuoso, molte volte anche violento, come nel finale del secondo atto, ma non ho ravvisato quanto afferma la regista nel programma di sala, che lo accusa di provocare lo sradicamento di Violetta e che, abbandonato, precipita in un “incubo popolato da tutto ciò che egli si immagina che Violetta possa fare mentre lui non c’è”. Non credo che la sua psicologia sia complessa: egli è un giovane innamorato, come ci si innamora a vent’anni per la prima volta, ed è travolto dalla gelosia.
Il baritono Marcello Rosiello (Germont) ha timbro poco gradevole, difficoltà nella salita agli acuti i quali sono spesso sostituiti da falsetti; non bastano alcune frasi sottovoce in tessitura comoda a rendere un personaggio autorevole, ma che in fin dei conti non deve risultare antipatico, poiché agisce secondo la morale (anche se un po’ ipocrita) del suo tempo. Strano il suo atteggiamento verso Violetta (ma certamente voluto dalla regista) quando, cantando “Un dì quando le veneri”, accarezza quasi lascivamente le braccia nude della donna.
I comprimari, abbastanza anonimi scenicamente e spesso confusi in mezzo al coro, hanno svolto il loro compito in modo sufficiente: Daniela Innamorati (Flora), Alessandra Contaldo (Annina), Giuseppe Distefano (Gastone), Davide Fersini (Douphol), Matteo Mollica (D’Obigny), Shi Zong (Grenvil), Simone Lobattista (Giuseppe), Hwang Tae Jeong (domestico di Flora), Roberto Scandura (commissionario).
Ho lasciato per ultima l’attesa protagonista, Mihaela Marcu, reduce da alcuni bei successi in Italia e all’estero, compresa una Traviata a Marsiglia. Indiscutibili le qualità come disinvolta attrice, facilitate dal bel personale; la voce è sonora, ben proiettata, al centro è solida e corposa, ma è flebile nella prima ottava; gli acuti sono raggiunti con una certa facilità, anche se non è entusiasmante il mi bemolle nella chiusura della cabaletta finale del primo atto eseguita con precisione, ma priva della nevrosi che deve caratterizzarla per non essere solo un esercizio vocale; duri e privi della necessaria leggera ironia i “la” nel duetto con Alfredo: “Ah, se ciò è ver, fuggitemi.
Il fascino dell’intervento di Alfredo, voluto interno da Verdi come voce interiore dell’amore che sta per conquistare Violetta malgrado il desiderio di immergersi nelle “follie”, viene vanificato dalla presenza in scena del tenore. La Marcu sa intonare acuti pianissimi e suggestivi e ha reso molto bene i momenti patetici (“Dite alla giovane” e “Addio del passato” ), ma in quelli più concitati non riesce a rendere la drammaticità del canto e la voce scade quasi nel parlato (scena con Alfredo in casa di Flora). Direi che nel complesso il personaggio che ne risulta non è completo nella sua varietà di sentimenti così ben espressi dal genio verdiano. Il Cigno di Busseto osò mettere in scena una mondana e non più un’eroina aulica, benché la prima rappresentazione alla Fenice del 1853 (peraltro accolta male) avesse tentato di mascherare la professione di Violetta edulcorando il linguaggio e anticipando la vicenda all’epoca di Luigi XIII, lontana dalla realtà contemporanea, accettata dal pubblico di allora solo nelle opere comiche.
Alla recita c’erano numerosi giovani (e questo è un bene); lo spettacolo sarà rappresentato in varie città, Modena, Como e altre “piazze” lombarde (e questa è una sinergia positiva); il pubblico alla fine ha applaudito calorosamente, sia i cantanti sia i realizzatori della parte scenica (e questo in me ha suscitato qualche perplessità).
La recensione si riferisce alla prima del 4 Novembre 2016
Ugo Bedeschi