L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La Bohème, teatro alla Scala

Questa è Mimì

 di Pietro Gandetto

In scena alla Scala dal 7 giugno al 14 luglio lo storico allestimento della Bohème di Franco Zeffirelli. Tra un cast vocale di rango, spicca il contributo di Sonya Yoncheva al suo debutto scaligero, che "salva" uno spettacolo ormai poco funzionale alle attuali esigenze del teatro d'opera contemporaneo.

Milano, 7 giugno 2017 – Ogni volta che la Scala ripropone lo storico allestimento della Bohème di Zeffirelli del 1963, la domanda è sempre la stessa: perché ancora questo spettacolo? Con circa tre centottanta  recite, la Bohème è il titolo pucciniano più rappresentato al Piermarini. E, nella fattispecie, con i suoi cinquantaquattro anni di militanza, la produzione di Zeffirelli (ripresa da Marco Gandini) ha praticamente impreziosito tutti i maggiori palcoscenici del mondo, ed è stata oggetto di numerose riprese, adattamenti e anche di una versione cinematografica.

Sicuramente, riproporre gli spettacoli che hanno maggiormente caratterizzato la storia della Scala ha il vantaggio di corroborare l'identità del teatro in Italia e nel mondo, rafforzando l'idea che come Milano abbia la sua “Madunina”, la Scala ha “la sua Bohème”. Dopo più di mezzo secolo, però, forse sarebbe il caso di voltare pagina. Il sottotetto del primo atto e le schermaglie del gruppo di scapigliati sono ormai un film in bianco e nero agli occhi dello spettatore. Così i colori del Café Momus non parlano più della Parigi del demi siècle, ma di un modo di fare teatro calligrafico, stereotipato, che non tiene minimamente conto di quello che oggi sono Parigi e il teatro d'opera. Le gag dei bohèmiens, come quella di Marcello e Schaunard che fanno le vocine da donna e giocano a scherma con l'attizzatoio del camino, non fanno più sorridere nessuno. E se, come spesso si dice, il vero protagonista del teatro pucciniano è l'atmosfera, forse è giunta l'ora di fare un passo in avanti e scrivere una nuova storia.

Ciò che era quasi necessario fare, e che fortunatamente è stato fatto, era affidare il ruolo della protagonista a Sonya Yoncheva, debuttante a Milano, ma grande rivelazione nei maggiori teatri internazionali. Il soprano bulgaro rinnova il volto di una giovane donna la cui tragedia è quella di non aver avuto dalla vita l'unica cosa a cui tenesse veramente: invecchiare insieme al suo amato Rodolfo. Sonya Yoncheva coglie l'essenza del personaggio, e non è la solita tisica esangue, vittima della vita, ma una donna dalla forte personalità, che non vuole rassegnarsi alla morte. Per capire Mimì, il vero banco di prova è il quarto atto, dove con la sua fine muore il concetto stesso di bohème, intesa come giovinezza, spensieratezza e sogno. Mimì è l'unica eroina pucciniana che muore non perché lo voglia (Butterfly, Liù, Tosca e, per certi versi, anche Manon), ma perché il destino se la porta via. Sonya Yoncheva sussurra il “Sono andati” con una innocente e commuovente dolcezza, ma con altrettanti convinzione e attaccamento alla vita. Come in ogni lettura che funziona, la resa vocale è in linea con l'idea scenica sottesa. La voce è ampia, di bel colore, omogenea e ben appoggiata. Le grandi arcate tipiche della scrittura pucciniana sono ben sorrette e il canto è ricco di sfumature e colori in tutta la tessitura.

Fabio Sartori resta il Rodolfo che abbiamo già visto tante volte. Veterano del ruolo, sicuro come una macchina da guerra, non l'interprete più fine che si possa immaginare, incline alla forza più che alla ricerca di colori e sfumature sofisticati: qualità, queste ultime, che, specie in un allestimento come questo, sarebbero state apprezzate.

Musetta non sembra essere il ruolo ideale di Federica Lombardi, recentemente apprezzata nell'Anna Bolena scaligera dello scorso aprile (leggi la recensione). Nonostante il pieno controllo dello strumento e l'assenza di errori, è mancata quella frivolezza e quella civetteria che contraddistinguono il personaggio.

Il resto della compagnia è omogeneo per qualità e contributi. Simone Piazzola è un Marcello disinvolto e dinamico. La vocalità, di volume non ingente, viene gestita con gusto. Mattia Olivieri è suo agio nei panni di Schaudard e Carlo Colombara, veterano del ruolo, conferma le qualità e l'esperienza che tutti conosciamo.

Completavano il cast Davide Pellissero nel ruolo di Benoit e Luciano di Pasquale in quello di Alcindoro. Parpignol era Francesco Castoro.

Funzionale, ma senza rivelazioni, risulta invece la concertazione di Evelino Pidò. Manca la tensione orchestrale, manca la magia dell'atmosfera così cara all'autore. Dalla platea, ci si dimentica a tratti che un'orchestra vi sia; orchestra, in ogni caso, all’altezza della sua fama, così come il coro diretto da Bruni Casoni.

Ampi consensi da un pubblico, composto in larga parte da turisti stranieri, che ancora vanno in visibilio per un cavallo sul palcoscenico e per il carretto di Parpignol. La smania di fotografare tutto rasenta la psicosi: troppi cellulari, troppi flash a scena aperta, e le valenti maschere ormai nulla possono per arrestare questa smania di immortalare ogni momento. Se impedire l'accesso dei telefonini in sala sarebbe forse eccessivo, sicuramente qualche iniziativa inibitoria andrebbe assunta, per combattere almeno a teatro la convinzione, ormai diffusa, che “if you don't post it, it didn't happen”. Ognuno di noi può scegliere, ma senza danneggiare chi va ancora a teatro per lasciarsi travolgere da quella inconfondibile magia pucciniana che un titolo come La bohème dovrebbe suscitare e che purtroppo i cellulari distruggono.

 foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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