L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Violenza, passione, carezza di poesia

 di Roberta Pedrotti

Successo per Andrea Chénier, titolo inaugurale della stagione scaligera. Yusif Eyvazov punta soprattutto sull'essenza poetica del protagonista, Anna Netrebko commuove con la sua Maddalena e Luca Salsi offre un ritratto incisivo e consapevole di Gérard. Estremamente asciutta e serrata la lettura di Riccardo Chailly, in sintonia con il bell'allestimento di Mario Martone.

MILANO, 7 dicembre 2017 -  Sant'Ambrogio blindatissimo, Scala transennata e biglietti da esibire a due postazioni militari prima di mostrarli, finalmente, alle maschere. Mondanità e bizzarrie (c'è anche uno spettatore mascherato da Donald Trump) immancabili, immancabile manifestazione sindacale sotto Palazzo Marino, a echeggiare ben altre turbolenze di piazza e ben altri eccessi d'esibizionismo nel foyer. È la sera della prima della Scala, quando improvvisamente tutti coloro i quali beatamente l'ignorano per trecentosessantaquattro (o trecentosessantacinque nei bisestili) giorni l'anno scoprono l'esistenza dell'opera lirica.

E sia dunque, senza se e senza ma, l'opera la protagonista assoluta, libera da fronzoli barocchi o austeri che siano, tanto più che il titolo scelto è melodrammatico quant'altri mai: Andrea Chénier, rovente dramma d'amore e morte, passione, ideali e sacrificio. Una miscela così ben assortita da garantire alla partitura, e a un Umberto Giordano fino a quel momento non proprio ben in arnese,  un'immediata popolarità che, tuttavia, ne ha enfatizzato il carattere di drammone storico di stampo verista, cosa che è, in realtà, solo in parte. La sfida, ove si riconosca l'onore e l'onere dell'apertura di stagione al ritorno del titolo al Piermarini dopo trentadue anni, sarà dunque di proporlo in una chiave di lettura che imponga valori e motivi d'interesse per il pubblico di oggi, a centoventuno anni dalla prima assoluta, riconsiderando, all'occorrenza anche in maniera radicale, interpretazioni e prassi consolidate  e oramai datate. Su questo punto la strada di Chailly, già nell'85 sul podio come giovane di talento e oggi come direttore musicale del teatro forte di un'ottima orchestra, è chiarissima: il suo Chénier è schiettamente sinfonico, incalzante, drammatico. Quand'anche si rilassi (e avviene che si allargino i tempi o che il dialogo si distenda), non illanguidisce mai, perfino allorché potrebbe permetterselo senza temere d'offendere il buon gusto, come in "Io t'ho voluto allora che tu piccina", dove anche concedendo a Luca Salsi maggior agio cantabile non si sarebbero persi il dolore e la brama feroci di Gérard. Allo stesso modo Chailly rifugge zuccherose leziosità settecentesche nel primo atto, delineando con rigorosa serietà anche le fatue schermaglie aristocratiche ("La vostra musa è la malinconia" suona più come una sconsolata constatazione che come un motteggio piccante): il colore, la densità, lo spirito ci fanno intendere che questo quadro è già osservato attraverso la lente della Rivoluzione, in perfetto accordo con la visione scenica di Mario Martone, il quale, con un'ambientazione storica di gusto e ben curata nella recitazione, dà il meglio di sé. I partecipanti al ricevimento al castello di Coigny appaiono, infatti, già fissi in un tableau vivant, manichini su una sorta di carillon girevole, alcuni dei quali già recanti in mano presaghe teste ghigliottinate, e condannati all'eterno ritorno dell'"interrotta gavotta", emblema dell'indifferenza alla Storia di un mondo sempre eguale a se stesso. Abilissima, Ursula Patzak replica per i rivoluzionari in tessuti più umili le tinte delicate che rilucevano nei rasi e nelle sete degli aristocratici, ma fa risplendere come pennellate rosso vivo fazzoletti e accessori (Illica era un esponente della sinistra radicale, l'opera debutta quando ancora vibra l'eco dell'eccidio perpetrato da Bava Beccaris, la Rivoluzione tocca nervi scoperti anche dell'attualità). Parimenti delle scene, che mutano senza soluzione di continuità grazie ad alcune strutture versatili quanto evocative, basti dire che sono ben degne del nome e della gloria di Margherita Palli, nonché assai ben illuminate da Pasquale Mari, il quale contribuisce al bell'effetto del finale secondo (il ponte Peronnet) e del quadro del processo in cui il brulicare del coro mette in tutta evidenza la qualità musicale e attoriale del complesso preparato da Bruno Casoni (le chiacchiere sul prezzo del pane sono un gioiellino). Il balletto arcadico di Daniela Schiavone si inserisce con discrezione nel contesto, come si conviene a un intermezzo privato e quasi salottiero.

Se Chailly cerca potenza drammatica aliena da turgori melodici veristi, Yusif Eyvazov si concentra intelligentemente sull'essere poeta di Andrea Chénier e disegna un personaggio fedele a se stesso ma in continua evoluzione. Piace che appaia quasi timido al ricevimento aristocratico, a disagio come l'albatros di Baudelaire in un ambiente troppo lontano dalla sua sensibilità, così come un diverso disagio esprimerà deluso dalla rivoluzione ma più maturo nel suo status di artista e letterato, tanto da concentrare la forza maggiore nella dignità della frase "Uccidi? Ma lasciami l'onor!", perentoria e ben proiettata. Il momento migliore di Eyvazov è però, coerentemente, "Come un bel dì di maggio", sfumato e appassionato, là dove il poeta ha compiuto il suo cammino, è solo e libero con se stesso. Più che l'eroismo, egli fa emergere la gioventù di Chénier, la sua fierezza, i suoi ideali, ma anche una fragilità di uomo che lo rende più complesso e moderno. Così si differenzia in maniera complementare rispetto a Maddalena, che non è semplicemente l'anima gemella del protagonista eponimo temprata attraverso "fame, miseria, il bisogno, il periglio". Anna Netrebko s'impone subito per un canto volitivo, perfino troppo, si direbbe, per la contessina del primo atto, ma che sale sul trono nei tre seguenti, soprattutto quando la sua vocalità così ricca e cremosa si raccoglie nella mezza voce delicatissima di "Eravate possente" e invoca la protezione del poeta con una dolcezza impagabile, preziosa e toccante, così come lo sarà, di riflesso, l'inno all'amore in cui culmina "La mamma morta", un altro commuovente vertice della serata. Passione e poesia si miscelano in equilibrio cangiante nella coppia protagonista, delineando due caratteri ben distinti e, quindi, inesorabilmente attratti l'uno dall'altra.

Luca Salsi è perfetto terzo polo del triangolo drammatico: il suo Gérard è schietto, consapevole. Si avverte nel suo gusto accorto l'uomo che ha abbracciato la causa del più deboli, che non possiede quarti di nobiltà, ma non proviene dai bassifondi, non è un capopopolo irruente e demagogo, bensì un uomo di una certa sensibilità intellettuale ("l'ha rovinato il leggere...", secondo Rubens Tedeschi anche per qualche abuso retorico nei suoi proclami) che comprende e soffre le proprie pulsioni e i propri istinti, espressi con una virilità autentica e mai volgare, così come autentica è la sua lealtà, la sua redenzione. 

Vale per tutti i tre interpreti principali l'impressione che, anche in una lettura rigorosa, asciutta e vigorosa (non paia un ossimoro: un fortissimo può risuonare violento anche senza grondare umori  e aromi veristi) come quella perseguita da Chailly, una maggior libertà cantabile e qualche ammorbidimento nel fraseggio orchestrale non avrebbero fatto perder nulla del concetto e avrebbero giovato alla resa complessiva. È vero che questo repertorio non è effetti, compiacimenti, corone e portamenti, ma abbiamo artisti e musicisti in grado di gestire con intelligenza il canto e valorizzare ancor più, e senza affanni, una visione finalmente moderna di opere troppo spesso prese sotto gamba.

Qui nulla si è sottovalutato nella scelta del cast, se si pensa all'eccellente Incredibile di Carlo Bosi (a costo di ripeterci: che emissione! Che precisione! Che perfetto canto sulla e nella parola, senza vezzi o caricature!), o alle altre tre donne: Annalisa Stroppa conferma la continua crescita vocale e interpretativa con una bella Bersi che non passa inosservata; Mariana Pentcheva si ritaglia il suo cameo come Contessa di Coigny mentre la vecchia Madelon riesce a emozionare anche con la più giovane Judit Kutasi. Gabriele Sagona dà il giusto rilievo a Roucher, così come Francesco Verna ci ricorda che il ruolo del Sanculotto può esser cantato, e con eleganza. Costantino Finucci (Fléville), Gianluca Breda (Fouquier Tinville), Manuel Pierattelli (l'Abate), Romano Dal Zovo (il carceriere Schmidt) e Riccardo Fassi (il Maestro di Casa, Dumas) completano una compagnia musicalmente a fuoco e teatralmente sempre ben caratterizzata.

Gli applausi stasera si riservano solo quando cala il sipario: l'azione prosegue a ritmo serratissimo, fa apprezzare la continuità benché tanto entusiasmo resti per forza di cose bloccato in gola e nelle mani fino all'intervallo e al gran finale. È un successo, caloroso, meritato, e anche colorito (come da tradizione) da qualche frase rimbalzata dal loggione, non ben intelligibile nel segno e nell'indirizzo. Ben evidenti sono, ad ogni modo, le cascate di fiori e coriandoli scintillanti ad avvolgere festosamente tutti gli interpreti al proscenio.

Foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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