For no other opera is the gap between scholars and public opinion so wide. Since 1876, when Amilcare Ponchielli’s La Gioconda debuted at La Scala in Milan with a success of unheard-of proportions, every time this drama is set up in some Italian theatre, its popular fortune is renewed. Yet also the diffidence of the musicography in this colourful work, taken from Angelo, tyran de Padoue that Victor Hugo had written forty years before, remains unchanged. Nevertheless, audiences are subjugated by the opulence of the music of this small-town grand opera, which is not devoid of sections of undoubted effect and a wise musical construction. The problem is that in La Gioconda the characters have minimal psychological depth, being more like the representation of extreme feelings rather than credible dramatic characters. 

Only part of the plot of Hugo’s historical drama is respected by the librettist Arrigo Boito, who identified himself as Tobia Gorrio in this work. In his convoluted verses and in Ponchielli’s music the main protagonist is the city of Venice, “great and terrible, full of darkness, where one does not die on the scaffold, but disappears” in the Orphan Canal or in the Dead Canal.

A director of La Gioconda today can choose two antithetical approaches for its mise en scène: either a parody of the story by staging “something else” (one wonders what Claus Guth or Krzysztof Warlikowski or even Damiano Michieletto might do with this plot!) or a traditional interpretation, a postcard design of Venice. Federico Bertolani doesn’t choose the first way, but takes into account the increasingly limited theatre budget with a simplified staging purified of tinsel and papier-mâché. Andrea Belli’s scenery tended to hint at rather than to describe the lagoon city: the water element was always present – even if from the stalls the spectators could not notice it, were it not for the light reflections and the splashes. Wooden walkways formed the scenery of Acts 1 and 4. A mast, two sails and ropes were the brigantine on which not only Laura’s perdition took place in Act 2, but also Gioconda’s transformation into a vindictive female. This was not the only conversion: she then became a compassionate woman and finally a martyr. Act 3 was less effective: the Ca’ d’Oro was made up with too many red drapes that conflicted with the ugly, translucent plastic sheeting that elsewhere was effective in hinting at the liquid element of the city. What’s more, forcing Laura to lie a good half hour stretched on her catafalque covered with a red cloth is hardly justifiable from a dramatic point of view.

Conductor Daniele Callegari reinstated all the pages of this complex score, even those that are traditionally cut. He delivered an infectious performance, underlining the dark and sombre moments, but also not skimping on the sound volumes when necessary, without ever prevaricating on the singers. Too bad that the three intervals diluted the dramatic tension and made some spectators go home after more than four hours of the performance. The total of 60 minutes of intervals for the changes of an essentially minimalist scenery seemed hardly justified.

Gioconda has three climaxes in the opera: the duet with the rival Laura, the moment of the excruciating “Suicidio!” and the final scene. In all three Saioa Hernández showed great temperament and vocal technique along with a particular, powerful timbre that makes her suitable for this repertoire. The other highlight of the evening was the character of Enzo Grimaldo, here sung by Francesco Meli whose characteristic commitment was appreciated by the audience, which responded with thunderous applause. Great experience and temperament are Anna Maria Chiuri’s talents and, despite some harshness in the low register, she effectively portrayed a tortured Laura. Giacomo Prestia’s performance as Alvise Badoero was generous , even if his bass is a bit worn. After his treacherous Giovanni in Marco Tutino’s Two Women, Sebastian Catana returned to another villain; his Barnaba a sort of Iago whose perfidy here was even stronger. The rest of the supporting singers and the two choirs were equally good.

The choreographer Monica Casadei and the company Artemis effectively performed the famous “Dance of the Hours”, a naive concession to the conventions of the Transalpine grand opera of the time. In the small space between the chorus and the orchestra pit, only six dancers illustrated with apt movements the gears and the hands of a clock in the the galloping and frisky themes of this page, whose character is totally remote from the nocturnal and mysterious atmospheres of the rest of the opera.

 

La Gioconda a Modena: un grand-opéra di provincia sempre popolare

Per nessun'altra opera è così netto il divario tra i giudizi della critica e del pubblico. Dal 1876, quando La Gioconda di Amilcare Ponchielli fu presentata alla Scala di Milano con un successo di inaudite proporzioni, ogni volta che questo drammone viene allestito in qualche teatro italiano si rinnova la sua fortuna popolare. Ma immutate rimangono anche le riserve della musicografia su questo feuilleton a forti tinte tratto da Angelo, tyran de Padoue che Victor Hugo aveva scritto quarant'anni prima. Il pubblico rimane comunque soggiogato dall'opulenza della musica di questo grand-opéra di provincia di sapiente costruzione musicale cui non mancano pagine di indubbio effetto. Il fatto è che i personaggi de La Gioconda hanno uno spessore psicologico minimo, essendo più che altro la rappresentazione in scena di sentimenti estremi più che personaggi dalla drammaturgia credibile.

Solo in parte la trama del dramma storico di Hugo viene rispettata dal librettista Arrigo Boito, che qui si firma Tobia Gorro. Nei suoi ricercati versi e nella musica di Ponchielli protagonista principale è la città di Venezia, «grande e terribile, piena di tenebre, dove non si muore sul patibolo, ma si sparisce» nel Canal Orfano o nel Canal Morto...

Il regista de La Gioconda oggi ha davanti a sé due vie antitetiche per la messa in scena: o una parodia della vicenda mettendo in scena “qualcos'altro” (chissà cosa ne farebbero Claus Guth o Krzysztof Warlikowski o Damiano Michieletto!) o un allestimento del tutto tradizionale con una Venezia da cartolina come scenografia. Federico Bertolani non sceglie la prima via: la sua è una messa in scena comunque semplificata e depurata da orpelli e cartapesta che tiene conto delle esigenze di budget sempre più limitati. Nella scenografia di Andrea Belli si accenna più che descrivere la città lagunare con l'acqua elemento sempre presente, anche se gli spettatori della platea quasi non se ne accorgano se non fosse per i riflessi di luce e gli spruzzi. Passerelle di legno formano gli ambienti del primo e quarto atto; un albero, due vele e cordami formano il brigantino su cui avviene la perdizione di Laura e la trasformazione della Gioconda in donna vendicatrice – ma non sarà l'unica conversione: diventerà poi pietosa e infine martire. Meno efficace la scena del terzo atto, l'interno della Ca' d'Oro, realizzata con troppi drappi rossi che contrastano con i brutti teli di plastica traslucidi che negli altri atti accennano efficacemente all'elemento liquido della città. Che poi Laura sia costretta a rimanere una buona mezz'ora stesa sul suo catafalco coperta da un telo rosso è difficilmente giustificabile dal punto di vista drammaturgico.

Il direttore Daniele Callegari ripristina tutte le pagine di una partitura complessa, anche quelle che di tradizione vengono tagliate al secondo e al quarto atto, e ne dà una lettura trascinante, sottolinea i momenti crepuscolari, ma non lesina sui volumi sonori quando è necessario, senza mai prevaricare però sui cantanti. Peccato che i tre intervalli diluiscano molto la tensione drammatica e facciano andare a casa gli spettatori dopo oltre quattro ore. Non si giustificano i sessanta minuti totali di intervalli per i cambi di una scena essenzialmente minimalista.

Tre sono i momenti culminanti del personaggio di Gioconda: il duetto con la rivale Laura, il momento del lancinante «Suicidio!» e la scena finale. In tutti e tre Saioa Hernandez ha dimostrato grande temperamento e tecnica vocale assieme a volume sonoro ragguardevole e un timbro particolare che la rende adatta a questo tipo di repertorio. L'altro elemento di punta della serata è il personaggio di Enzo Grimaldo, qui sostenuto dal Francesco Meli di cui il pubblico ha apprezzato il solito impegno con applausi copiosi. Grande esperienza e temperamento sono le doti di Anna Maria Chiuri che, nonostante qualche asprezza nel registro basso, ha delineato con efficacia una Laura sofferta. Strumenti un po' usurati quelli dell'Alvise Badoero di Giacomo Prestia, la sua è stata una prestazione generosa ma affaticata. Ancora un ruolo da vilain per Sebastian Catana, che dopo il perfido Giovanni de La ciociara di Marco Tutino veste le parti di Barnaba, uno Jago la cui perfidia qui è ancora più irragionevole. Buono il resto dei comprimari così come i cori.

Monica Casadei con la compagnia Artemis ha risolto con efficiacia la celeberrima “Danza delle ore”, una ingenua concessione alle esigenze del grand-opéra transalpino. Nello spazio esiguo tra coro e buca orchestrale i soli sei ballerini hanno illustrato con movimenti allusivi ai movimenti degli ingranaggi o a quelli delle lancette di un orologio i galop e i temi pimpanti di questa pagina il cui carattere è totalmente avulso dalle atmosfere notturne e misteriose del resto dell'opera. 

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