L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Verdi, uscita di galera

 di Francesco Lora

Opere rare al Maggio Musicale Fiorentino, secondo la vocazione storica del festival: il secondo titolo è stato La battaglia di Legnano di Verdi, rappresentata senza sommi divi ma con encomiabile motivazione a rimboccarsi le maniche. Direzione di Palumbo, regìa di Giordana, canto di Yeo, Gipali e Altomare.

FIRENZE, 29 maggio 2018 – Più che mai in questa sua corrente edizione numero LXXXI, il Maggio Musicale Fiorentino sta riaffermando la propria vocazione storica: restituire all’ascolto opere di rara esecuzione, le quali non mancano mai a dispetto delle renaissance belcantistiche e della promozione del Novecento, nonché nella costante evoluzione del canone che dovrebbe fissare i capisaldi del repertorio. Dopo l’inaugurale Cardillac di Hindemith, il festival ha dunque fatto posto alla Battaglia di Legnano, opera di un Verdi ormai alla porta d’uscita dagli anni di galera, imbibita di ardori risorgimentali con – tant’è – lega e carroccio, trionfante alla “prima” romana (bis dell’intero atto IV), degna fino al 1961 d’inaugurare la stagione della Scala. Niente sommi divi della musica e del teatro nelle quattro recite del 22-31 maggio nel Teatro del MMF (a proposito, l’anonimo colosso cementizio dell’Opera fiorentina ha da poco una benvenuta iscrizione a movimentare la facciata: Teatro del MMF, appunto, nome ora sia dell’istituzione sia dell’edificio). Niente sommi divi, si diceva, ma artisti di solido mestiere pronti a rimboccarsi le maniche per riavvicinare alla popolarità questo Verdi quarantottesco e negletto.

Garante della lettura musicale è stato Renato Palumbo, il quale è non solo un conoscitore tra i più dotati, sottili e schietti dell’opera ottocentesca italiana, ma anche un veterano della Battaglia di Legnano, già diretta a Bilbao giusto dieci anni or sono. Al cospetto di metalliche macchine da guerra quali l’Orchestra e il Coro del MMF, egli si è fatto generale solerte nell’ordinare colori e scatti, come pure nel farsi obbedire a puntino: ecco allora l’inesorabile esattezza ritmica, l’involo elastico, genuino, mai di maniera, nonché lo sguinzagliato sfarzo degli strumenti che non si azzarda però a insidiare il primato del canto. Coerente il versante drammatico: regìa di Marco Tullio Giordana coadiuvato da Boris Stetka, scene e luci di Gianni Carluccio, costumi di Francesca Livia Sartori ed Elisabetta Antico; un nuovo allestimento di taglio iconograficamente tradizionale ma economicamente essenziale, ove l’azione s’ispira fedele alle didascalie originali e l’occhio cade su grezze e sode murature di laterizio alla lombarda; nessun rovello registico che allontani il lavoro dalla sua più letterale fruizione; qualche simpatica ingenuità, come la primadonna unica sbracciata tra dame pudicamente coperte fino al mento.

La primadonna, nella parte di Lida, è Vittoria Yeo: materiale non molto personale e temperamento ancora moderato, è vero, ma preparazione ferrea, abnegazione totale, personaggio costruito nella delicatezza anziché nel gran sfogo, tecnica adeguata a realizzare le finezze di fraseggio richieste dal concertatore; quanto basta ad accendere tutta la dovuta curiosità in vista di un altro e più esposto Verdi imminente: Macbeth con Riccardo Muti a Firenze e Ravenna. Franchezza e generosità, senza rischio di calligrafia, animano sia Giuseppe Gipali, squillante e orgoglioso Arrigo tuttavia permeato per natura dalla lacrima dell’eroe-martire romantico, sia Giuseppe Altomare, Rolando di squisita umanità nell’amorevolezza di sposo e padre come pure nell’impeto di rabbia. Quanto all’entrata a sorpresa di Federico Barbarossa nel Finale II, pare fatta apposta per dar luogo al cameo di un basso carismatico, capace di suscitare con un solo cenno la terribilità dell’imperatore: Marco Spotti non manca tuttavia d’originalità nello sbozzare un carattere di meschino sarcasmo. Nel comprimariato si distingue, accanto alla puntuale Imelda di Giada Frasconi, il bieco Marcovaldo di Min Kim.


 

 

 
 
 

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