L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Al di là del bene e del male

di Roberta Pedrotti

Attila, ideale contraltare del Macbeth inaugurale, completa il quadro operistico del Festival Verdi 2018, che fra versioni inconsuete e letture non scontate si propone finalmente come un autentico laboratorio di riflessione sull'opera di Verdi, di cui non trascura comunque l'impatto più tradizionalmente sanguigno.

PARMA, 6 ottobre 2018 - Un anno appena (anzi, trecentosessantadue giorni) separa i debutti di Attila e della prima versione di Macbeth che ha inaugurato questo Festival Verdi 2018. Due preludi gemelli accomunano i due titoli consecutivi nel catalogo verdiano, ma l'accostamento stimola, com'è dovere di una manifestazione qual è quella parmigiana, riflessioni su ben più profondi parallelismi. Allora, quel tema dolente fra impeti bellicosi, che da un lato pare sprofondare in una nebbia senza luce, dall'altro è aureolato da richiami a suoni di cornamuse, strida stregonesche e sospiri sonnambuli, pare schiudere due percorsi sull'ambiguo crinale fra Bene e Male. Due facce della stessa medaglia, Attila e Macbeth, perlomeno, per quanto concerne quest'ultimo, nella sua virulenta prima stesura.

Fra violenza e onore, politica, spregiudicatezza, vendetta, presagi, rimorsi e ossessioni, Attila, Ezio, Odabella e Foresto si muovono nell'Italia tardoantica come Macbeth, la Lady, Banco e Macduff nella Scozia altomedievale. Lo esprime bene Gianluigi Gelmetti, che della partitura coglie l'aspetto, fosco, terragno, impetuoso e sanguigno soprattutto perché lo fa emergere da una lettura sensibile del testo in edizione critica (a cura di Helen Greenwald), e dunque fa respirare la violenza e il fuoco di Attila nei dettagli sottili della drammaturgia musicale, oltre che in un'integralità delle riprese che, lungi dall'apparire vuota formula, amplifica il ventaglio espressivo. Il concetto ripetuto appare sfumato in diverse dinamiche o ribadito con forza, a seconda della situazione, la completezza dell'articolazione formale è completezza del pensiero teatrale e musicale; il valore di un'indicazione anche minuta pesa più dell'esibizione di muscoli e decibel, ché la forza è maggiore quando la si sfodera con buona mira in un'articolazione variegata e intelligente.

Lo esprime bene anche Andrea De Rosa (autore di regia e scene, mentre i costumi sono di Alessandro Lai), per quanto le immagini di violenza non risultino quei pugni nello stomaco che dovrebbero essere, il piano realistico e le immagini interiori non sempre s'intreccino con quell'incisività che vorremmo ci togliesse il fiato. Pasquale Mari ricerca con buoni risultati gli effetti naturalistici auspicati dall'autore e li alterna ad altri simbolici o sovrannaturali; soprattutto, però, i caratteri emergono delineati a tutto tondo, in un contesto plumbeo e soffocante che condensa l'atmosfera barbarica, l'ottocento romantico e risorgimentale di Verdi ma anche del tedesco Werner, salutato da Madame de Staël quale erede di Sciller e autore di Attila König der Hunnen, l'attualità di alcuni dettagli nei costumi del popolo, che ricorda la Storia eterna di oppressi e oppressori, significativamente spesso indistinti, delineata nell'Adelchi. A fronte di un'abitudine non certo infondata e consolidatasi negli ultimi anni ad ammirare l'integrità di Attila e a guardare con sospetto gli intrighi dei suoi antagonisti, De Rosa ci mostra un condottiero unno carismatico, gelido, perfino elegante, nella sua orda di masnadieri, ma anche sadico e spietato, pronto a pugnalare a tradimento una donna che, a differenza di Odabella, si era mostrata pavida e supplichevole. In tal senso, se le efferatezze non ci fanno rabbrividire, non risultano comunque mai gratuite, ma sempre relate e funzionali a un progetto registico che illustra il precipitare agli inferi di un “mostro”, di un “flagello” che man mano soccombe al peso delle sue stesse azioni, perseguitato dalle visioni delle sue vittime e dell'abbagliante incubo concretizzato ai limiti dell'allucinazione nell'ambasciata di Papa Leone. Da questo punto di vista, Riccardo Zanellato sa rendere, con la sicurezza che lo contraddistingue in una parte ben rodata, il carattere freddo e sprezzante di un assassino che risponde solo a un rigoroso codice d'onore e che pure sente qualcosa spezzarsi nella sua ostentata durezza. D'altro canto, Odabella svela un'ambiguità ancora maggiore mentendo palesemente a Foresto: “sempre ti fui fedel” proclama, eppure l'avevamo vista nella tenda di Attila ed è facile dubitare della fedeltà dell'emula di Giuditta. Per di più, nel finale, è evidente che l'amazzone di Aquileja sia colta da dubbi e rimorsi, che esiti ad unirsi agli assassini del nemico finché la memoria del padre non la possiede e la spinge, come invasata, a sgozzare Attila. Anche Maria José Siri non è nuova ai panni di Odabella, e l'affronta con slancio, supera anche un'incidente d'intonazione nella scopertissima “ Oh, nel fuggente nuvolo”, siglando per il resto con voce salda nel volume e nell'estensione una prova che le vale calorosissimi applausi.

Vladimir Stoyanov, poi, sa creare con De Rosa un Ezio capace di accattivarsi, se non proprio le nostre simpatie, quantomeno maggior comprensione: nella mentalità di Attila sarà anche un “traditor spergiuro”, ma in fondo è solo un uomo politico sicuro della sua forza militare e realisticamente desideroso di limitare i danni per la propria patria. L'ambizione personale si sposa a una coscienza delle dinamiche del potere, delle conseguenze e dei compromessi che la sua gestione comporta. Non possiamo dirlo del tutto in mal fede, solo esponente di un mondo opposto a quello degli Unni, e il canto elegante del baritono bulgaro, con la sua facilità a reggere tessiture acute, serve perfettamente allo scopo. Spiace, invece, che Francesco Demuro non si sia ancora ripreso dall'indisposizione che l'ha colto nei giorni scorsi: questa recita non è preceduta da annunci in tal senso, ma è evidente che il tenore non riesca ancora a esprimersi al meglio, benché l'intenzione dell'interprete si faccia comunque ben apprezzare, soprattutto nella romanza dell'ultimo atto.

Completano il cast l'imponente Leone di Paolo Battaglia, reso quasi gigantesco dalla tiara e dall'abbagliante veste candida anche di fronte a un Attila non proprio mingherlino qual è Zanellato, e l'Uldino di Saverio Fiore, efficace perché discreto, implacabilmente compreso nel suo piano di vendetta.

Il coro del Teatro Regio si mostra in gran forma sotto la guida di Martino Faggiani, così come si appreza la prova precisa e compatta della Filarmonica Arturo Toscanini.

La recita che si era aperta con il doveroso e sentito omaggio a Montserrat Caballé, si chiude fra calorosi applausi.

 

foto Roberto Ricci


 

 

 
 
 

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