Time was when it was the least performed work of Verdi's popular trilogy. Now there is no theatre in Italy that does not put Il trovatore on stage and many opera seasons open with this title, as is the case of Turin's Teatro Regio. 

A rare work by Umberto Giordano, Siberia, was planned for the opening, but the replacement of the theatre manager and resulting resignation of musical director Gianandrea Noseda led to a revolution in the billboard that now displays an utterly autarchical choice: only works by Italian composers are present, only the most popular and in settings of guaranted tradition, like this 2005 production.

Distant from Robert Wilson's Le trouvère "lunaire" – even though a huge full moon hangs over the stage – Paul Curran's direction was no thrilling experience thirteen years ago, neither is it today. The staging is linear, descriptive and does not differ from tradition even if the setting is postponed to the Italian Risorgimento, the time of the opera's composition (1851-1853). Kevin Knight's costumes help to define the period: red-clad soldiers here look like Garibaldi's volunteers and women parade with wide skirts and tight bodices. Some of the director's ideas differ from Verdi's dramaturgy, such as Azucena's presence during the Manrico-Leonora duet in jail (in the libretto Azucena wakes up just before the final bars), or Manrico's assassination on stage, with a fake gun whose click is heard out of time on the tremolo of the strings before the finale fortissimo.

The director highlights the warlike atmosphere of the opera in the camp scene that opens the third part, "The Son of the Gypsy Woman". Before the curtain, a screaming woman bursts on stage stalked by two soldiers. We will see the same woman covered in blood and lifeless at the end of the scene – the disasters of war always affect women in the first place. The scenery, by the same Kevin Knight, is made of a high staircase that slides apart and two dark and looming outworks. The darkness is predominant, only punctuated by the nuns' faint lamps or by the torches carried by monks during the Miserere.

The gloomy atmosphere on stage counterpoints Pinchas Steinberg's wide-ranging conducting. He chooses the tradition of cuts and rallentandi, not without effectiveness, but he does not avoid the oom-pah-pah effect of some of the accompaniments .

Female voices dominate the cast. Originally Verdi wanted to name the work after the gypsy, Azucena, then, after the untimely death of librettist Cammarano, the composer further developed Leonora's role, only to highlight again Azucena's in the French version of 1857. The greatest psychological care is given to the two female characters, and on stage here in Turin two great performers seem to agree with the composer's intentions.

American soprano Rachel Willis-Sørensen debuted as Leonora, her second Verdi role, and charmed the audience with her beautiful singing line, a particular but well projected voice and perfect diction. More exalting in lyrical moments than in those of agility, she portrayed a Leonora difficult to forget. On the performance of Anna Maria Chiuri as Azucena nobody had any doubts: the temperament and rich tones of the mezzo-soprano are well known and fitting for the definition of the character, a woman invested with an inescapable mission, that of avenging her mother's death. The alternating passions that shake the woman were expressed with great mastery by Chiuri who moved from very quiet, almost whispered, moments to fits of raging temper, the same temper that led Azucena to switch her son with that of the abhorred Conte at the stake.

Diego Torre's Manrico was disappointing: the Mexican tenor, a two-year graduate of the Domingo-Thornton Young Artist's Program at Los Angeles Opera, looked awkward on stage in a character that the libretto demands mystery. He was also vocally awkward, his timbre throaty and his diction is not always crystalline. The moment of "Di quella pira" lacked pathos and his high notes were less than luminous. Massimo Cavalletti was an elegant, less villainous than usual Conte di Luna, more convincing in his lyrical phrases than in his outbursts of indignation and jealousy.

Nel Trovatore di Torino sono le donne a primeggiare

Una volta era l'opera della trilogia popolare verdiana meno rappresentata, ora non c'è teatro in Italia che non la metta in scena e molti aprono la loro stagione lirica proprio con Il trovatore, così come fa il Teatro Regio di Torino

Per l'inaugurazione era prevista una rara opera di Umberto Giordano, Siberia, ma le vicissitudini subite col cambio di soprintendente e le conseguenti dimissioni del direttore musicale Gianandrea Noseda hanno portato a una rivoluzione nel cartellone che ora si presenta in forma del tutto autarchica: solo opere di autori italiani, le più popolari e in allestimenti di sicura tradizione, come questo spettacolo che recupera una produzione bolognese del 2005. 

Ben distante dal Le trouvère “lunaire” parmense di Robert Wilson – anche se qui un'enorme luna piena sovrasta la scena – la regia di Paul Curran non aveva destato soverchi entusiasmi tredici anni fa e non li desta neppure adesso. La lettura del regista scozzese è lineare, descrittiva e non si scosta dalla tradizione anche se sposta l'ambientazione in epoca risorgimentale, quella della composizone dell'opera (1851-1853), che i costumi di Kevin Knight aiutano a definire: i soldati del Conte con le loro giubbe rosse qui sembrano volontari di Garibaldi e le donne sfoggiano ampie gonne e corpetti stretti in vita. Alcune trovate sceniche vanno contro la drammaturgia prevista da Verdi, come la presenza di Azucena durante duetto Manrico-Leonora in carcere, mentre il libretto prescrive che si svegli solo poco prima del finale in cerca del figlio. O come l'uccisione di Manrico in scena, con una pistola finta di cui si sente il clic fuori tempo sul tremolo degli archi prima del finale in fortissimo

Il regista evidenzia il clima bellico e passionale dell'opera nella scena dell'accampamento che apre il terzo quadro, “Il figlio della zingara”. Prima ancora che si ascoltino le note di inizio, una donna urlante irrompe davanti al sipario braccata da due soldati. La stessa donna la vedremo insanguinata ed esamine alla fine della scena. I disastri della guerra non hanno età e colpiscono sempre i più deboli e le donne in primis. Le scenografie, dello stesso Kevin Knight, sono formate da un'alta scalinata che scorre e si apre per formare altri spazi, e da due bastioni laterali, il tutto scuro e incombente. Le tenebre qui regnano sovrane, punteggiate dalle fioche lampade delle religiose e dalle fiaccole dei monaci durante il Miserere.

All'atmosfera cupa in scena corrisponde la direzione piena di contrasti di Pinchas Steinberg che sceglie la tradizione dei tagli e dei rallentandi per la sua lettura della partitura, non priva di efficacia, però non evita talora l'effetto zum-pa-pa di certi accompagnamenti.

Nel cast vocale primeggiano le voci femminili. Inizialmente Verdi voleva intitolare il lavoro col nome della zingara poi, dopo la morte prematura del librettista Cammarano, il compositore aveva sviluppato ulteriormente la parte di Leonora, salvo poi a evidenziare nuovamente quella di Azucena nella versione francese del 1857. La maggior cura psicologica qui è dedicata ai due personaggi femminili e in scena qui a Torino due grandi interpreti sembrano dar ragione al compositore. Il soprano americano Rachel Willis-Sørensen debutta nel ruolo di Leonora, il suo secondo ruolo verdiano, e incanta il pubblico torinese con la sua bella linea di canto, una voce dal timbro particolare ma molto ben proiettata e dalla dizione perfetta. Più esaltante nei momenti lirici che in quelli di agilità, delinea una Leonora difficile da dimenticare. Sulla prestazione di Anna Maria Chiuri si andava sul sicuro: sono noti il temperamento e la ricca vocalità del mezzosoprano, appropriati per definire la figura di Azucena, una donna investita di una missione ineludibile, quella di vendicare la morte della madre sul rogo. Le alterne passioni che agitano la donna sono rese con grande mestiere dalla Chiuri che alterna a pianissimi sussurrati scoppi di emotività incontrollata, quella stessa emotività che l'ha portata a scambiare sul rogo il proprio figlio con quello dell'aborrito Conte.

Deludente il Manrico di Diego Torre: il tenore messicano, allievo del Domingo-Thornton Young Artist's Program di Los Angeles, è scenicamente impacciato in un personaggio che il libretto vuole misterioso, sfuggente. Vocalmente è poco gradevole, il timbro è ingolato e la dizione non sempre cristallina. Il momento della "Pira" manca di pathos e gli acuti sono tutt'altro che luminosi. Massimo Cavalletti è un elegante Conte di Luna, qui personaggio meno cattivo del solito, che convince più nei momenti di riflessione lirica che in quelli di sdegno e gelosia. 

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